La Mostra di Pittori Liguri dell’Ottocento apre il ciclo delle celebrazioni dei Grandi Liguri con una visione panoramica delle varie personalità che determinarono la fisionomia pittorica della Liguria durante il secolo scorso [XIX]. Naturalmente sono compresi nella Mostra alcuni pittori della fine del Settecento che hanno costituito una specie di preludio ai modi ottocenteschi e coloro che nei primi anni del secolo XX hanno continuato a guardare gli ideali pittorici dello scorso secolo [XIX].
Accanto a questa è la mostra del Sindacato Interprovinciale Fascista delle Belle Arti che raduna tutti i pittori liguri viventi e raggruppa le schiere dei maestri maturi e delle giovanissime speranze.
Le due Mostre vengono così a integrarsi e offrono una complessiva visione delle manifestazioni pittoriche della Liguria svoltesi negli ultimi anni della Repubblica Ligure, durante il Regno Sardo, il Regno d’Italia e nell’Era Imperiale Fascista.
Necessità di spazio ci hanno costretto a esporre la sola pittura, consigliando per la scultura la visita alla Galleria d’Arte Antica di Palazzo Bianco dove sono conservate opere del Revelli e del Monteverde, alla Galleria d’Arte Moderna di Nervi che possiede un bel gruppo di opere del Traverso, del Chiafiarino, del Varni, del Monteverde, dello Scanzi, ecc. e di tutti i contemporanei, al Cimitero di Staglieno dove sono raccolte le migliori opere degli scultori genovesi, dalla fondazione della Necropoli ai nostri giorni.
Gli ordinatori di questa Mostra hanno presentato i pittori con le opere celebrate dalla critica contemporanea e con opere scelte con modernità di criteri per opportuni raffronti. Ciò, s’intende, nei limiti del possibile.
La limitazione di opere per ciascun autore, imposta per ragioni di spazio e per rendere più chiara e semplice la definizione delle varie tendenze e delle diverse personalità, riguarda gli artisti la cui produzione ebbe carattere illustrativo e gli artisti contemporanei dei quali è facile avere conoscenza.
Di alcune figure importanti invece la Commissione, pur senza intenti di mostre personali, ha radunato dipinti e studi che possano contribuire ad una più precisa conoscenza dell’artista.
Dobbiamo ripetere per i pittori dell’Ottocento quanto è stato detto per quelli dei Seicento e del Settecento, nei riguardi di coloro che, come il Baratta, l’Isola, il Semino,il Peschiera, il Gandolfi, il Barabino, il Bertelli, i Quinzio, hanno seguito la decorazione, tradizionale in Genova, dell’affresco. Cosi essi figurano con sole opere di cavalletto.
Ci sia consentito di rendere note le difficoltà incontrate nella ricerca delle opere degli autori ottocenteschi che, per ragioni facilmente intuibili, sono meno agevolmente reperibili di quelle dei pittori del Sei e Settecento.
Le opere dei vari artisti sono state disposte nelle sale secondo l’ordine cronologico e secondo le varie tendenze e, con lo stesso criterio, vengono illustrate nel presente catalogo il quale è arricchito da cenni biografici su ciascun pittore e da informazioni bibliografiche aggiornate.
Informazioni e cenni accuratamente raccolti dal Prof. Tomaso Pastorino.
Tutti sanno che la spiritosa pittura genovese si spegne col Magnasco e che la tradizione decorativa languisce col Parodi, con Paolo Gerolamo Piola e con Lorenzo De Ferrari in composizioni manierate e piacevoli.
Il bolognese Franceschini, col suo aiuto Giacomo Boni, primo direttore della scuola di pittura dell’Accademia Ligustica (1751/52), porta in Genova, in contrapposto all’ultima espressione del barocchismo ligure, le forme semplici, chiare ed accademiche.
La fine del secolo annovera il Galeotti, compositore vivace ancora compreso di manierismo tutto ligure, e pittori modesti quali il Campora, il Giolfi, il Ratti, tutti direttori della scuola di pittura della Ligustica.
Soltanto Carlo Giuseppe Ratti, nel suo lungo soggiorno in questo Istituto (1776/95), da alla scuola accademica un sicuro indirizzo a mezzo di un insegnamento basato su un nobile programma pittorico, sulle conoscenze tecniche e su una buona cultura artistica.
L’Accademia Ligustica di Belle Arti, fondata nel 1751 per avvicinare i giovani al vero si trova così nel Ratti un valente organizzatore e maestro e con lui non solo si chiarifica e si consolida nei suoi obbiettivi, ma acquista quel predominio su tutte le manifestazioni genovesi che mantiene per oltre un secolo.
Nel Ratti, allievo del Mengs, vive ancora la tradizione decorativa ligure del grande affresco e nella sua pittura si rivela la vena di quell’eclettismo classicheggiante che il biografo degli artisti genovesi trasse dal suo maestro e che valse a stringere i rapporti fra l’ambiente pittorico ligure e quello romano.
Artista più vivace e geniale, pittore sensibile e incisore valente, fu Giovanni David educato a Roma dal Corsi e dai contatti avuti, durante i suoi viaggi, con l’arte francese, inglese ed olandese, ed anche in un certo modo dalla bella tradizione veneta e da quella seicentesca ligure, come lo dimostra il forte quadro della battaglia della Meloria che adorna il salone del Gran Consiglio nel nostro Palazzo Ducale.
Questo artista di largo respiro non ha lasciato allievi, nè intaccato l’impostazione dell’insegnamento accademico della Ligustica e quella delle influenze romane che dovevano ancora formare, con gli ammaestramenti del Batoni, il sensibilissimo Angelo Banchero e, con quelli del Mengs e del Corsi, il forte Carlo Baratta, chiaro esponente in Genova del movimento neoclassico.
L’attività di Carlo Baratta si è risolta nel periodo fortunoso delle riforme napoleoniche e a lui risalgono iniziative culturali che sono state risolte dopo un secolo dal Fascismo.
Periodo artistico interessantissimo quello che intercorre dalla rivoluzione di Genova del 1797 al Congresso di Vienna e che comprende non solo pittori valenti – ricordiamo Michele Rigo che ebbe l’onore di dipingere alla Malmaison – ma anche architetti insigni quale il Tagliafico e scultori degni dei più profondi e moderni studi.
Si avvicendano, in questo periodo, alla direzione della scuola di pittura della Ligustica, maestri abili per una sicura conoscenza del mestiere, sebbene non dotati di personalità artistica, facili e corretti decoratori di chiese e di palazzi con gelide e vuote composizioni di carattere religioso, mitologico, storico. Sono costoro, ancora legati agli insegnamenti dell’ambiente locale, G. B. Dellepiane, Filippo Alessio, Giuseppe Paganelli, Michele Cerruti e Santino Tagliafichi, nel quale sopravvive, in un lontano ricordo di correggismo, l’ultimo palpito della scuola genovese.
La gelosa fedeltà alla tradizione locale è proprio un carattere nostro.
Pur non ignorando i movimenti di fuori, anche le personalità più aperte e libere hanno custodito intatto il patrimonio regionale.
Se i pittori di paese sono gelidi, sia che abbiano appreso a Roma dagli Hunterberger come il Bacigalupo, sia che abbiamo soggiornato a Firenze come il Garibbo, pittore scrupolosamente oggettivo, ritratti di buona fattura hanno eseguito Matteo Picasso e Rosa Bacigalupo e fini miniature Santo Panario.
Il primo quarto del secolo XIX si compie con l’assunzione del March. Marcello Durazzo al segretariato del massimo Istituto artistico genovese.
L’illustre patrizio, amico dell’Hayez, del Camuccini, del Sabatelli, del Bezzuoli, del Canova, del Bartolini e del Tenerani, volle formare a Genova un centro d’arte, proposito che animò, sulla ne del secolo, anche la benemerita Maria Brignole Sale Duchessa di Galliera.
Rileggendo i discorsi del Durazzo agli allievi della Ligustica, risalta la sua predilezione per l’arte classica temperata da un certo eclettismo e poi il suo appoggio al movimento romantico italiano, che in pittura non aveva portato alcuna innovazione tecnica. Al mondo greco e romano succedevano gli episodi religiosi, le esaltazioni delle figure storiche italiane: al gelido accademismo dei neoclassici, una drammaticità altrettanto gelida.
La Scuola di pittura venne da lui affidata a mani più esperte: prima a Francesco Scotto (1824/26), autore della bella ancona nella chiesa dell’Annunziata, poi a Francesco Baratta ( 1827 / 35), pittore diligente e compositore fantasioso, al Fontana e infine al Frascheri (1839/62) che diresse la scuola per ventitre anni, dividendo nell’ultimo decennio la fatica con Giuseppe Isola (1851/71) suo successore.
Marcello Durazzo potè vedere lo sviluppo della sua opera soltanto all’inizio con l’affermarsi del Pucci, dell’Isola, del Frascheri, del Peschiera, del Massola, di coloro che hanno preceduto i maggiori esponenti della pittura storica in Liguria, il Gandolfi, il Giannetti, il brioso frescante Giovanni Quinzio e il più personale di tutti Nicolò Barabino.
Col segretariato del Durazzo le giovani forze artistiche genovesi cominciano a guardare a Firenze e la scuola del Bezzuoli si innesta all’influenza di quella romana del Camuccini e del Coghetti che contribuiscono alla formazione del Frascheri e di pittori che, come il Gandolfi, hanno iniziato la loro carriera artistica attorno al 1848.
Giuseppe Frascheri, esponente delle locali manifestazioni romantiche, amava i temi cari all’Hayez e il romanticismo inglese che gli era noto, dopo aver subito il fascino del francese Scheffer, dipingendo quadri soffusi di passione e soavi per colorito.
La vita movimentata del Peschiera, celebratissimo dalla critica locale, non appare nei suoi freddi e scolastici dipinti intessuti di ricordi neoclassici romani e dei romantici tedeschi, inglesi e francesi.
Nel ritratto eccelle Gaetano Gallino, mentre il mediocre Cogorno dipinge allegorie e Pietro Barabino quadri di genere, e nel paesaggio il Cambiaso si mostra seguace della tradizione paesistica locale e di quella dell’ambiente romano in attente e fedeli illustrazioni della vecchia Genova.
La Marchesa Teresa Doria anima la sua pittura con le idealità pittoriche del D’Azeglio.
Una vena del movimento dei  “Puristi” fiorito a Roma con l’Overbeck era giunta a Genova con la Piaggio sposa al noto Luigi Mussini che, con Maurizio Dufour ha dipinto ed ornato chiese con la semplicità lineare e coloristica dei “Primitivi”.
Da Giuseppe Isola, già espositore nel 1835, artista modesto di intendimenti, freddo e povero di colorito, compassato seppur corretto compositore, e da Tammar Luxoro, un allievo del Cambiaso convertito al Calamismo e alla nuova scuola, si diparte la generazione dei pittori genovesi della seconda metà del secolo XIX, degli artisti che diedero alla pittura ornamentale un carattere forse discutibile, ma tutto ligure e originale, e la schiera dei pittori che con i contatti artistici di fuori hanno preso viva parte al rinnovamento pittorico italiano.
Il “ Conte di Carmagnola”, dipinto nel ’35, l’affresco per il palazzo Ducale, eseguito nel 1875, danno la misura dell’Isola compositore ed il grado del suo spirito romantico.
Ma il suo temperamento pittorico appare soprattutto nei ritratti.
Intimamente legato al Bezzuoli è Francesco Gandolfi, pittore storico, nobile e robusto frescante che vuole gareggiare con gli artisti della bella tradizione genovese, ritrattista profondo ed espressivo, pittore sincero ed aperto al naturalismo, dalla tavolozza sonora per la tonalità dei bruni e sapiente nell’esprimere la drammaticità dei soggetti con gli effetti di chiaroscuro. Il suo quadro “Gian Luigi Fieschi che rivela alla moglie la congiura”  esposto alla Nazionale Fiorentina del ’61 dove si trovava con la famosa “Cacciata del Duca di Atene” dell’Ussi, dimostra l’abbandono delle forme romantiche e l’apporto del naturalismo nel campo della pittura storica locale.
Il Gandolfi precorre di poco il gruppo degli allievi dell’ Isola,  Semino, Barabino, Castagnola, Giannetti, che dopo gli studi presso la Ligustica hanno compiuto il viaggio tradizionale degli artisti liguri a Firenze, trovandovi il Ciseri e il Puccinelli, allievi del Bezzuoli, l’Ussi e Amos Cassioli, e il cenacolo del caffè Michelangelo. [sic].
Il Castagnola, più ligio alla pittura storica tradizionale, acquistò fama per una pittura facile, comprensiva, direi popolaresca. Nel capolavoro “La morte di Alessandro dei Medici” della civica Galleria d’Arte Moderna di Genova, risaltano le sue virtù e le sue debolezze pittoriche, mentre il resto della sua produzione, varia nei soggetti, ma sempre uguale nella tecnica, presenta opere a volte felici e originali di invenzione pittoricamente più intuite che elaborate.
Ha seguito, come il Castagnola, soltanto la pittura di cavalletto Raffaele Giannetti che formò la sua cultura pittorica a Torino,  a Venezia, dove soggiorno per anni risentendo le grazie Zona, a Parigi dove rimase nell’ambito tradizionalisti.
Esordì come pittore storico, convertendosi poi alla  pittura naturalista e ad un verismo minuzioso, descrittivo, specie nei paesaggi e nelle composizioni di genere, mentre i quadri di figura, risentono sempre del robusto e sano pittore della tradizione storica. Il suo “Carlo V e Clemente VII” dipinto nel 1859, dimostra in relazione col Gandolfi e il Barabino, la visione del ventiduenne pittore.
Due pittori dotati di grande talento e di eccellenti doti pittoriche, Giovanni Quinzio e Nicolò Barabino, hanno ridonato alla pittura murale genovese, il bel carattere secentesco con espressioni formali del tutto personali. Giovanni Quinzio più brioso con un vibrante manierismo regionale, Barabino con una maniera sua speciale tra genovese e tiepolesca con lievi accenni morelliani.
L’opera del Quinzio rispecchia il tormentato amore del pittore per l’arte e l’autoritratto che esponiamo, dipinto a 80 anni, ci rivela il vecchio pittore ancora aperto alle conquiste dell’arte moderna e questo suo travaglio si palesa nei suoi figli ed allievi, artisti tutti di piani diversi, ma di solida tempra pittorica: Tullio, il più profondo e sapiente, maestro ed ispiratore di tutta la giovane generazione del principio del novecento, Antonio Orazio, scultore, pittore e decoratore fecondo, Antonino decoratore facile e scapigliato ora lombardeggiante, ora genovese.
Nicolò Barabino, dotato di un sereno temperamento, potè dare, senza pentimenti, tutto il frutto del suo ingegno. Coloritore e modulatore piacevole di temi semplici e piani, disegnatore corretto, si è imposto per le sue sapienti, felici ed espressive composizioni, nelle quali la linea generale contorno, l’armonia delle masse, il gioco delle espressioni e dei sentimenti, le note semplici dei colori concorrono a formare l’opera con una inquadratura perfetta. Abilissimo frescante e geniale inventore di soggetti, diede alle complesse figurazioni storiche, religiose ed allegoriche un carattere tutto suo che fa riscontro a quello del Morelli, specialmente nelle Madonne.
Nella pittura di cavalletto si risente il lungo soggiorno fiorentino nella contenuta eleganza delle forme e del colorito ora acceso, ora grigio.
Nicolò Barabino è stato il pittore della scuola storica che ha superato tutti i genovesi del suo secolo e ha portato all’arte italiana la sua onesta e serena personalità artistica.
Si può affermare che la tradizione pittorica dell’Accademia Ligustica ha in lui il suo più alto esponente e che con lui muore.
Nulla però poteva egli dare ai suoi allievi, ed Angelo Vernazza, del quale ci duole non aver potuto avere quel  “Mattino di Portofino” dipinto a divisionismo ed esposto nel 1898 alla Nazionale di Torino, aveva iniziato altro cammino, mentre il Gainotti aveva continuato la maniera del maestro.
Il Barabino, il Quinzio e il Semino sono, col Bertelli, gli ultimi frescanti liguri che si riallacciano alla tradizione
secentesca della scuola genovese alla quale si sono deliberatamente rivolti.
Forte e simpatico ritrattista, pittore gustoso di genere e di paesaggio e di ogni cosa che si possa direttamente ritrarre, il Bertelli mancava della facoltà inventiva a tal punto da dover comporre, modellando le figurine e le scene in piccoli teatrini, che poi ritraeva in bozzetti, studiando ogni particolare sul vero per l’esecuzione dell’opera, sia pel quadro, sia per la decorazione murale a fresco.
Il Bertelli appartiene alla generazione che iniziò la sua attività attorno al’6o ed aveva col Musso, artista legato alle influenze della pittura storica dell’alta Italia, accettato il movimento verista favorito da Tammar Luxoro.
La nomina di Tammar Luxoro al posto di amministratore dell’ Accademia segna una nuova data nella storia dell’ Istituto per l’ apporto del rinnovamento pittorico italiano nel chiuso ambiente genovese, per il contrasto fra il direttore dell’ Accademia e il capo del manipolo giovanile con il Isola e i suoi allievi; contrasto che, per quanto limitato al campo scolastico e pittorico, fu sentito anche dai circoli letterari letterari della città che ne lasciarono tracce nella “Gazzetta”, negli almanacchi umoristici, nel romanzo “Amori alla macchia” di Anton Giulio Barrili.
Alessandro Calame aveva allontanato Tammar Luxoro dal Cambiaso, freddo vedutista genovese, per ricondurre la pittura di paesaggio a naturalezza e semplicità di visione, ad accordi schietti e modulati di colore, alla conquista spaziale.
Il movimento naturalista, già noto nel 1844 non solo per l’azione del Bartolini, del suo amico scultore Cevasco e di Pietro Selvatico, era penetrato anche in Genova, precedendo l’azione esercitata poi dalla Società Promotrice di Belle Arti fondata nel 1848.
La Società di Belle Arti ha sviluppato una notevole influenza nell’ambiente artistico genovese; alle sue Mostre dal 1850 al ’60 esposero il De Tivoli, l’Altamura, il Beccaria, il Piacenza, il Camino, il Gastaldi, l’Ussi, Filippo Palizzi, Fontanesi, Telemaco Signorini, il Cabianca, il Pittara, il Lega, il Pagliano, i quali recarono in Genova i modi dei piemontesi, dei lombardi, dei macchiaioli e dei napoletani.
Contribuì pertanto allo sviluppo delle nuove idee, alla riforma dell’insegnamento accademico, all’azione di Tammar Luxoro, che fondò nel 1870 la scuola di paesaggio, lo stabilirsi in Genova di due paesisti educati a Parigi alla scuola dei “Maestri di Barbizon” , il portoghese Alfredo D’Andrade (1860) al quale Genova deve il restauro di molti monumenti medioevali e lo spagnuolo Serafino De Avendano.
La scuola di paesaggio diviene il centro del movimento antiaccademico ligure. Ad essa si associa anche il maturo Gandolfi e in essa convengono i giovani più dotati e più ansiosi di rinnovamento. Invano gli accademici la bollano come “scuola degli spinaci” per l’esaltazione del colore locale, come mi narrò Alfredo Luxoro: le personalità più notevoli della pittura genovese di questo tempo, Issel, Rayper, scaturiscono da essa ed esaltano i suoi principi.
Il D’Andrade, il Rayper, l’Issel, si trovano nel 1866 a Rivara per lavorare in piena comunione d’intenti e perfezionarsi nella tendenza veristica con il Pittara reduce da Parigi.
Ernesto Rayper, morto giovanissimo, è l’artista genovese più completo del suo tempo e la sua personalità, ancora poco nota, può reggere il confronto con quella degli artisti fiorentini e piemontesi. Egli ha raffinato la sua pittura a Rivara, in Svizzera e nel Delfinato, collo studio del Calame e con quello dei paesisti di Barbizon, particolarmente di Daubigny.
Il suo mondo si è tuttavia mantenuto intatto, ora cercando di innovare, ora cedendo al post-romanticismo
del tempo, ora avvicinandosi alle conquiste tecniche del Fontanesi.
Di questo pittore, troppo presto scomparso, conosciamo le opere del periodo della sua formazione pittorica, i problemi del colore e la vigilante sapienza della sua tecnica.
Non  un ricercatore del vero come il De Avendano e come l’Issel, ma un costruttore veramente moderno di quadri di paese, al quale non era sfuggito il movimento impressionista.
Col gruppo macchiaiolo, più che con i rivaresi ha relazioni pittoriche Alberto Issel, pittore militare, paesista gustoso, che subì pure il terribile fascino di Mariano Fortuny.
Giuseppe Raggio è passato dagli studi in Liguria a Roma, dove fece parte dei “Venticinque della Campagna Romana”, mantenendo però certi caratteri di ligurismo innato che lo legano a Genova, mentre altri pittori, come il Ricci ed il Tallone, pure nati nella nostra terra, sono stati assimilati totalmente dall’arte delle regioni nelle quali  hanno vissuto.
Nel decennio 1870, 1880 nuovi pittori si presentano alle mostre della Promotrice genovese: Alfredo Luxoro, che derivato dalla famosa scuola verista del paesaggio si compiace spesso di scene storiche e di genere, intese con nobile verismo; Tullio Quinzio, educato a Firenze, borioso e genialissimo; G. B. Costa, finissimo paesista e marinista riecheggiante i lombardi Gignous e Carcano ed il veneto Ciardi; Andrea Figari il bel pittore di paesi e di marine e ,che del mare aveva appreso a conoscere la forma e il colore, l’impeto e la poesia che in modo ammirevole espresse nel quadro “L’antro del Diavolo”acquistato dal Kedivé d’Egitto.
La pittura di genere coltivata dal modesto Queirolo ebbe nel Torriglia, ammiratore certo del lezioso fiorentino Lessi, un fortunato autore di tele nelle quali la minuzia dei particolari e la piacevolezza allettante del soggetto si sovrappongono al problema pittorico.
Dobbiamo ricordare di questo periodo le pitture graziose del Costa, legato al problema pittorico degli artisti lombardi non solo nel campo della pittura ma anche in quello della scultura, specie per una vivace scapigliatezza che non è propria dei liguri.
Sulla fine del decennio, dopo aver compiuto gli studi all’Accademia con gli allievi del Fontanesi si trasferisce a  Genova (1877) Cesare Viazzi portando nell’ambiente pittorico genovese, stanco per la lunga permanenza all’Accademia dell’Isola che vi insegnò pittura fino al 1871, i robusti esempi di un buon insegnamento della figura ed una profonda cultura pittorica, evidente nei suoi ritratti ed in particolar modo nelle numerose e grandi composizioni di carattere mitologico e nei delicati paesi.
Pure da Torino, pochi anni dopo, dovevano prendere dimora a Genova il paesista Giuseppe Sacheri (1885) che ha svolto la sua personalità in quel mondo pittorico-letterario proprio del tempo, dipingendo primavere e paesi rugiadosi con colorito acceso e piacevole, e Guido Meineri che dallo stesso mondo ha tratto per i suoi paesaggi note romantiche e melanconiche.
Da Napoli, pure in quegli anni, portava in Genova il bel colorito, la fattura precisa, la pittura gioiosa e pastosa della scuola post-morelliana Giuseppe Pennasilico, il pittore inimitabile dei piccioni, l’artista versatile che ha trattato la figura, il ritratto, la scena di genere, il paesaggio con maestria, dipingendo con amore e mente aperta, seguendo con simpatia tutte le conquiste tecniche.
Sul finire di questo decennio (1880-1890) venne a Genova (’91) [sic] Plinio Nomellini, allievo del Fattori, anima ardente di artista, consapevole delle moderne teorie dell’impressionismo, audace innovatore, e vi trovò un ambiente culturale, il poeta Ceccardo Roccatagliata Ceccardi e lo scultore De Albertis, a condividere la sua audacia che aveva spaventato nel ’98 Ugo Fleres, e a maturare quell’esaltazione epica e quella evoluzione tecnica che è propria di questo periodo genovese e che ebbe il suo compimento con la famosa Sala del Sogno alla Biennale di Venezia.
Il Secolo XX si apriva in Genova ai giovani della scuola del Viazzi, del Pennasilico, di Tullio Quinzio, e ad artisti che avevano appreso direttamente o indirettamente da vari maestri genovesi e si erano perfezionati alle mostre Veneziane, come Eugenio Olivari, delicato ed elegante pittore di paesaggi, od avevano studiato all’Accademia di Torino, come Giovanni Ardy, e si erano fatti sui ricordi della pittura divisionista, come il Perolo e il Baghino, per ricercare soltanto coloro che ci hanno lasciato durante o nell’immediato dopo guerra.
Ai  lati della tradizione ottocentesca e del movimento artistico del Nomellini e del De Albertis, si era sviluppata la forte e originale personalità pittorica di Rubaldo Merello che si distingue per il netto distacco da ogni legame pittorico e  per diversità di stile.
Nel piccolo seno marino di San Fruttuoso dove egli lavorò per interi decenni [sic], fino alla morte, compose un meraviglioso complesso di opere di elevata modernità.
Le esperienze e gli studi ottocenteschi sul problema del colore che travagliarono i grandi pittori in tutti i paesi, trovano in lui l’autore che seppe nei rapporti di colore, di luce e colore delle ombre, trovare il mistero di nuove armonie, l’incanto di nuove visioni, l’infinita poesia e l’esatta aderenza alla realtà della natura.

ORLANDO GROSSO

ELENCO DEGLI ESPOSITORI