Il divisionismo italiano è stato riconosciuto tardivamente in patria, mentre all’estero è stato poco conosciuto ed apprezzato.
Nel 1968, al Guggenheim Museum di New York, ci fu un’esposizione dedicata al neoimpressionismo europeo, dove l’Italia era rappresentata soltanto da Pellizza (con Panni al sole e Il girotondo), Balla (con Bambina che corre sul balcone) e Severini (con Esposizione sferica della luce centrifuga).
Negli anni 1979/80 alla Royal Academy of Arts di Londra nella mostra Post Impressionism: cross-currents in european paintings venne proposta una sezione italiana che tuttavia non rendeva pienamente giustizia alla nostra esperienza divisionista.
Negli stessi anni le opere post-impressioniste venivano esposte anche alla National Gallery di Washington. In quest’occasione Il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo, suscitò molto clamore.
Molto probabilmente l’utilizzo come fonte iconografica per il noto film di Bertolucci Novecento, esercitò una forte componente attrattiva nei confronti del pubblico. Inoltre le sue grandi dimensioni e la natura stessa del soggetto rappresentato erano destinate ad accattivarsi la simpatia di un certo tipo di spettatori, per molti dei quali esso costituì una vera e propria sorpresa, poiché il divisionismo italiano, almeno fino agli anni Settanta, era ancora un fenomeno alquanto sconosciuto.
Anche in Italia il riconoscimento del valore di quest’esperienza è arrivato molto tardi.
Durante il periodo prefascista e fascista la critica italiana tendeva ad ignorare il fenomeno, considerando gli artisti individualmente, anziché inserirli in un’analisi generale che tenesse conto delle problematiche legate alla teoria ed alla tecnica.
Carlo Tridenti in occasione della I Biennale di Roma, nel 1921, pur nella comune minimizzazione del problema tecnico, dava atto, però, dell’unicità del divisionismo nel modo di affrontare il rapporto tra luce e colore.
Anche Ugo Ojetti s’inseriva in questo filone scegliendo di minimizzare la questione tecnico-teorica, tuttavia riconosceva lo sforzo dei divisionisti italiani di “obbedire alla scienza pur facendo arte” poiché “proprio da quel gruppo cominciò in Italia la fatica di ristabilire in pittura la collaborazione fra la sensibilità e la ragione: lunga fatica, tra errori, esagerazioni ed equivoci” .
Mentre Enrico Somarè nel volume La pittura italiana dell’ottocento rilevava che “caduta la teoria, che finì per scoprire il suo carattere illusorio ed il suo lato specioso, che consisteva in un’illecita trasposizione della pittura dal campo aperto dell’intuizione schietta e dell’esecuzione logica a quello angusto dell’ottica scientifica, sono rimaste le opere d’arte che si chiamano tuttora divisionistiche, ma che si dimostrano effettivamente pittoriche poiché contengono il residuo intuitivo di quella teoria…”.
Nel 1939 Anna Maria Brizio liquidò il divisionismo italiano come una pallida emanazione del neo-impressionismo francese.
Nel 1952 Mario Valsecchi con la retrospettiva per la XXV Biennale Internazionale d’Arte di Venezia aprì la strada ad un giudizio più obiettivo. Tale giudizio fu in sostanza riconfermato dal saggio di Mia Cinotti La pittura a Milano dal 1815 al 1915 in Storia di Milano e da quello di Raffaele De Grada nella Nota storica sul divisionismo nel volume Itinerario umano nell’arte pubblicato nel 1957: “Non si creda che il Divisionismo italiano (…) sia una pura e semplice derivazione dal movimento francese. Deriva invece da un simile clima di reazione al disfacimento impressionista o macchiaiolo, sorge dall’intenzione di portare una correzione di ragione all’eccessivo sentimentalismo con cui si erano maturate le premesse tanto sobrie dell’impressionismo”.
Solo negli anni ’60, però, nacque un reale interesse per il movimento divisionista, che venne analizzato anche dal punto di vista della documentazione filologica.
Nel 1967 Fortunato Bellonzi scrisse il saggio Il divisionismo nella pittura italiana che favorì la riscoperta del divisionismo, ma la vera e propria pietra miliare sull’argomento sarà l’opera, edita due anni dopo,
Gli archivi del divisionismo a cura di Maria Teresa Fiori con l’introduzione di Bellonzi, che rivestirà un’importanza fondamentale per lo studio di questa espressione artistica.
M.T. Fiori, Archivi del Divisionismo, 1968
Nel saggio introduttivo Bellonzi si riallacciava alla letteratura critica che ebbe origine dall’Impressionismo, analizzando la questione fondamentale della luce ponendo a confronto il concetto tradizionale con le affermazioni più innovative degli artisti francesi.
Lo studioso inquadrava il fenomeno nell’ambito della ricerca di un nuovo linguaggio espressivo, e nel porre la questione trovava affascinanti analogie fra pittura e poesia rilevando già in Parini, Manzoni e Leopardi precorrimenti del “sentimento pittorico moderno”. In particolare in Leopardi è facile trovare preavvisi dell’intuizione moderna della luce, come nel Dialogo di un fisico ed un metafisico del 1824: “Così credono gli uomini, ma si ingannano, come il volgo s’inganna pensando che i colori siano qualità degli oggetti, quando non sono degli oggetti ma della luce”.
Inoltre è facile trovare corrispondenze tra il luminismo pittorico lombardo da cui prenderà l’avvio il Divisionismo e le ricerche dei letterati della Scapigliatura come Giuseppe Rovani che sosteneva la musicalità di tutte le arti, o Carlo Dossi secondo cui colori, odori e forme hanno stretti rapporti con la musica. Secondo Bellonzi i pittori divisionisti furono perfettamente in linea con i mutamenti che allora si verificavano nella poesia italiana. Basta pensare al divario tra Carducci, i cui versi ben si accostano alla pittura di un Fattori, e Pascoli che spesso appare vicino a Nomellini e Pellizza. Per non parlare degli evidenti paralleli con Gabriele D’Annunzio ed arrivare poi al paroliberismo di Marinetti, dove lo scrivere per parole semplicemente accostate, senza il legame delle congiunzioni o delle preposizioni, e con l’abolizione della punteggiatura, con i sostantivi spogliati degli aggettivi ed i verbi senza l’accompagnamento degli avverbi, è in sostanza, per Bellonzi, l’equivalente del dipingere “diviso”. Secondo questo studioso: “Al divisionismo italiano, che ebbe così scarsa fortuna critica, (…) nocque, ancor più che il mutamento rapido e profondo del gusto, l’intransigenza della critica e diremo meglio di una parte di essa con i suoi ostracismi, spiegabili e forse anche inevitabili, ma comunque illiberali e per ciò stesso culturalmente deboli.
Gli nocquero in parte, indubbiamente la freddezza, la meccanicità metodologica di personalità piccole o minime, le quali nondimeno montarono in qualche fama al tempo loro gettando poi l’ombra della propria opacità sulle figure di rilievo, e cancellando affatto
dalla memoria di altri “minori” da ristudiare oggi utilmente, perché non privi di pregi.
E, non ultima causa, gli nocque il formalismo largamente imperante, che ha ricacciato nell’ombra indiscriminatamente i movimenti idealizzanti dell’arte e della cultura, accusandoli di essere letterari”.
La minuziosa opera di Teresa Fiori ha consentito di conoscere le singole personalità ed i rapporti esistenti fra i vari maestri e le loro poetiche. In particolare gli epistolari e le pagine di diario costituiscono, per la loro freschezza ed immediatezza, un ricco ed affascinante materiale di studio.
Dopo questo volume, negli anni ’70, avvenne un vero e proprio riesame critico che si espresse attraverso saggi e mostre.
Gli studi di Annie-Paule Quinsac, a partire dal 1969, stabilirono l’autonomia del divisionismo italiano rispetto al neo-impressionismo francese. La studiosa chiariva anche come la dipendenza dai modelli francesi avesse nuociuto alla fortuna critica del nostro movimento: “L’equivoco della critica, anche recente, nasce dal fatto che ci si è ostinati a voler sovrapporre alla situazione italiana un modello ricavato da quella francese. Questo atteggiamento ha avuto conseguenze dannose sulla diffusione e l’apprezzamento del movimento perché implicava sempre la scoperta dei riflessi dell’intellettualismo parigino sulle ricerche nostrane e, non trovandone abbastanza si finiva col dover negare gli esiti italiani e la loro autonomia e travisarli del tutto riducendoli ad un’espressione provinciale minore di un fenomeno europeo nato a Parigi”.
La Quinsac suddivideva il divisionismo italiano in due generazioni di pittori, dedicandosi in particolare allo studio della prima. Interessante l’analisi degli studi di ottica, mentre scarso rilievo veniva dato all’ideologia politica.
Viceversa nella monografia Quarto Stato, pubblicato nel 1976, Aurora Scotti analizzava la figura e l’opera di Pellizza, cogliendo l’occasione per compiere un’acuta analisi storica del periodo con particolare riguardo alla nascita ed allo sviluppo del movimento socialista.
Non mancavano comunque voci discordanti, come quella autorevole di Giulio Carlo Argan che nel manuale L’arte moderna del 1970, esprimeva in pratica una vera e propria stroncatura. Argan osservava come sul finire dell’ottocento lo sviluppo dell’economia industriale determinasse nell’arte l’insorgenza di stimoli tecnico-scientifici, di slanci progressisti e di istanze di natura sociale.
Il divisionismo si era sviluppato in questo contesto come evidente ripercussione del neo-impressionismo francese da cui i divisionisti italiani avevano ripreso i postulati scientifici manifestando un generico entusiasmo per la scienza ma non un interesse più profondo, senza assorbirne quindi l’istanza più recondita che consisteva nell’idea di arte come ricerca.
Nel 1970 venne allestita dalla Permanente di Milano una mostra antologica impostata con criteri storico-scientifici che presentò gli artisti della generazione futurista, nel loro primo momento divisionista, quasi in contrapposizione con i maestri della prima generazione.
Nel catalogo figuravano alcuni saggi degli organizzatori della mostra e in questa sede alcuni studiosi poterono ritornare sull’argomento approfondendo gli studi precedenti.
Raffaele De Grada sviluppò ulteriormente le tematiche sociali, ponendo in rilievo la lotta di classe e affermando che il pittore divisionista è al contempo rivoluzionario e riformista.
La Brizio poté modificare il giudizio espresso alcuni decenni prima e cogliere nel divisionismo gli aspetti più precisamente figurativi e naturalistici pur registrando la contraddizione fra le inclinazioni simboliste da un lato e le spinte populiste dall’altro.
Dopo questa mostra un ampio settore della critica italiana si è volto all’indagine capillare del fenomeno, ricercandone un’articolazione globale su scala nazionale, pur nella peculiarità delle realtà geografiche, prendendo in esame non solo i fenomeni artistici più eclatanti ma anche quelli considerati, forse ingiustamente, di minor rilievo.
E’ il caso ad esempio degli approfonditi studi di Gianfranco Bruno sul divisionismo ligure.
Questo lungo dibattito critico troverà il coronamento ideale nella Mostra sul Divisionismo Italiano allestita a Trento nel 1990, che consentirà la conoscenza e la visione da parte del pubblico di molte opere divisioniste, comprese quelle di artisti considerati minori e spesso ignorati, e fornirà l’occasione per la pubblicazione di due volumi, il catalogo critico e l’opera L’età del divisionismo, contenenti i contributi dei maggiori studiosi contemporanei sull’argomento.
Mostre
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Franco Dioli, IDAL800900 Archivio Rubaldo Merello e Iole Murruni, Storica dell’arte.
