Nel periodo a cavallo dei due secoli (XIX e XX) la scacchiera artistica italiana ha tre poli: Milano, Firenze, Genova.
La prima è più collegata a Parigi attraverso l’attività indefessa di Grubicy de Dragon; ma la città è ancora sorda, e sarà lo stesso Boccioni, più tardi, a lamentarsene; Firenze, attivata da colonie di Preraffaelliti della prima e dell’ultima ora, è tarpata dall’intramontabile sciovinismo locale.
Resta Genova e la Liguria.
A metà dell’800 si forma nella Riviera di Ponente la cosiddetta “Scuola Grigia” (Rayper, De Avendaño, Musso, De Andrade, lssel), scuola che influenzò sia i macchiaioli (a detta di Diego Martelli), sia la scuola piemontese di Rivara; negli anni successivi Genova conosce uno straordinario sviluppo industriale, legandosi soprattutto con l’Inghilterra, per il commercio del carbone e per le cognizioni tecnologiche”
Quando nel 1890 Plinio Nomellini giunge in questa città la colonia inglese è nutrita e periodicamente rinforzata dagli arrivi estivi per l’allora trionfo turistico delle riviere. Anarchico, amico di Alfredo Müller, (reduce da Parigi e primo cezannista italiano), si pensa avrà dallo stesso conosciuto quella tecnica “pointilliste”, che trasmetterà poi a Pellizza e a Morbelli, gravitanti essi pure su Genova, dove avevano tra l’altro esposto per la prima volta.
Nomellini tramite lo scultore De Albertis entra in contatto con l’ambiente inglese locale, fortemente impregnato di problematiche esoteriche, e diventa amico dello scrittore teosofo J. R. Spensley, più comunemente conosciuto per aver creato in Italia la prima squadra di calcio, il ben noto e glorioso Genoa Cricket and Football Club.
Nel 1898 solo i liguri rappresentano il “divisionismo” all’ Esposizione Nazionale di Torino.


Dal 1900 al 1915 la Liguria è il centro culturale più all’avanguardia d’Italia: Cozzani a Spezia, a Levanto il Premio Internazionale di Xilografia, a Genova “Le Novità” con testi di Sbarbaro e incisioni di Cominetti, a Oneglia “La Riviera Ligure” dei fratelli Novaro, e poi Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Sem Benelli, spesso Bistolfi, e poi la nuova generazione pittorica che porterà la lezione divisionista alle più estreme conseguenze: Albino, Cominetti, Gerenzani, Merello, Olivari ed i giovanissimi Castello (Chin) e Canegallo. […]
Nel 1911 giunge a Milano, per frequentare Brera, Enrico Castello (Chin) è allitterazione del genovese Richin = Enrico), dopo aver studiato all’ Istituto Nautico di Camogli ed essere stato per due anni a Torino studente
al Politecnico e direttore della rivista umoristica “Torino ride”.
Egli viene accolto tra i pittori futuristi e va ad abitare all’ultimo piano del Palazzo del Commercio in via Unione 1, accanto allo studio di Romolo Romani. […]

A mio avviso lo scarto che fa deviare i liguri (mi riferisco a Chin e a Sexto Canegallo, anche quest’ultimo fu in contatto con Romolo Romani), su un altro versante è solo ed esclusivamente di ordine contenutistico e i mutamenti linguistici, che noi possiamo verificare con le opere esposte, non sono che rispondenze plastiche diverse, solo perché diversi sono i contenuti.
C’è, per conto mio, nell’agire del futurismo un serpente che continua a mordersi la coda: la presunzione di un fare plastico “puro”, che non può esistere proprio per la maledizione del complementarismo congenito. […]
Del resto: Cominetti affianca il futurismo avvicinando Marinetti a Parigi nel 1910, ma si ribella al suo “pregiudizio accademico” di ostacolare la pittura di nudo”.
Avvolto il Chin in un’aura dannunziana, tra “fine dicitore” ed “eroe dell’aria”, appare chiaro quali effetti potevano avere su di lui un Boccioni eternamente appeso alle gonne della madre o le reprimenda marinettiane tipo “Manifesto contro il tango e Parsifal” o meglio il “Manifesto della donna futurista” di Valentine di Saint Point, che propugnava virago o fattrici di futuri eroi-guerrieri. […]

Enrico Castello “Chin” nel suo studio di Arenzano, 1912


Per Chin il volo non è un’esaltazione dinamica del progresso, ma solo e soltanto un tuffo nella natura come è evidente nelle opere ora di proprietà dell’Imperial War Museum di Londra, per cui non prospettive di metropoli aberrate da “scivolate d’ala” o da “picchiate”, ma lirica contemplazione dei volanti non diversi da primaverili rondoni.

Enrico Castello “Chin”, Trasvoltata, 1915 circa


Nel “Ritratto di Sant’Elia” appaiono anche linee radianti, quali prolungamento ritmico del profilo dell’architetto futurista.

Enrico Castello “Chin”, Ritratto di Sant’Elia, 1915 circa


Per Cornelio Geranzani, la situazione appare più complessa per l’attuale difficoltà di collocazione cronologica delle opere “pointillistes”. (Intuitivamente sarei propenso a spingermi fino al 1910); egli espone in quell’anno a Roma l’opera “Bambine che giocano”, nella stessa mostra “Amatori”, ove Balla esponeva “Salutando”.

Cornelio Geranzani


Comunque se si è riconosciuto l’apporto dell’astrattismo italiano, così tardivo rispetto agli esempi europei, è fuori dubbio che il Geranzani rappresenta col Balla dei tre dipinti (“Villa Borghese”, “Roma”, “Finestra di Düsseldorf”) l’unica presenza italiana di un “pointillisme” tra i più classici, superiore nell’ortodossia perfino ai francesi e al filone Belgio-Olanda, ove spesso appare biaccoso e assolutamente privo di quei ritmi compositivi che si rifanno alle “misure sante”, intendendo ciò, nell’accezione goethiana: santo è ciò che crea armonia.
Il primato ligure in questo settore potrebbe per altro essere sottolineato dal fatto stesso che a Genova il termine “complementarismo” fu per lungo tempo all’epoca il termine più usato, precedentemente all’adozione tardiva di “divisionismo”.


 Pure Domingo Motta fu interessato alla problematica “scientifica” dell’uso dei colori; già nel 1901 a Parigi, presso la Galleria George Petit, egli presenta un complesso di opere, ove le sfumature delle tinte sono create di preferenza attraverso velature dei tre colori fondamentali.
Egli, malgrado i successi internazionali, per nostalgia di casa, rientra in Liguria. A Genova intanto la scuola artistica locale si era divisa in due tronconi; un’ala “conservatrice” aveva abbandonato la Società Promotrice e fondato il gruppo “Alere Flammam” e una rinnovatrice chiamata “Giovane Italia” aveva fondato la “Società di Belle Arti di Genova”; Motta partecipa a quest’ultima assieme a De Albertis, Baroni, Olivari e Grosso.
Spesso raggiunge Nomellini nel suo rifugio di Viareggio; assieme a De Albertis crea una società per lo sfruttamento dei brevetti artistici derivati per la maggior parte dal suo “cromometro”.
L’apparecchio, progettato verso la fine del secolo, sembrerebbe essere il primo strumento per la scomposizione dei colori ai fini della stampa in tricromia: auto-cromografia per la stampa a mezze tinte, foto-cromominiatura, pneografia.
Ancora di Motta è la definizione di un prontuario per la traduzione dei suoni in colori.
Egli ci appare inizialmente vicino alle eleganze francesi di un Helleu, per passare poi a una pittura più densa, per certi versi vicina a Bonzagni.
Nel primo decennio del secolo egli si sposta su posizioni più simboliste, evidenti nelle opere ispirate alla guerra (“La cattedrale di Rheims vegliata dagli angeli”, o la cartolina “propatria” in occasione dell’inaugurazione della lapide ad Oberdan “Ma su ogni forca sboccia una rosa all’amore”); in chiave simbolista non può che essere eletta l’opera “Metropoli dell’avvenire” databile intorno al 1918.

Domingo Motta, Metropoli dell’avvenire, 1918 circa


Di seuratiana semplicità la figura di Sexto Canegallo.

Sexto Canegallo


Arthur Kraft gli scriveva nel 1926: “Più tento di penetrate nella vostra spiritualità più riconosco il candore della vostra opera”; Canegallo è senza dubbio la personalità a livello europeo nella quale si concentrano, nel più ortodosso rispetto delle teorie, tutte le concezioni artistico-scientifiche, alle quali abbiamo sinora accennato; egli ci appare in Italia erede ed esecutore testamentario di Previati e Romani.
Del primo per la tematica in funzione di una linea più corposa di coloristiche vibrazioni, del secondo per la definizione delle opere in cicli, (in Romani: “Gioia – Pianto – Passione – Riso – Dolore”, “Donna Plebea – Vergine – Attrazione – Puttana – Nobildonna” , da notare la simmetria dei concetti opposti) e per la ripresa del concetto plastico di “radianza”.
Patetica la volontà di titolazione del genovese: “La nostra luce – formula di due figure laterali ed opposte, di sesso diverso, elementi della sintesi convergenti al centro per potenze energetiche attrattive”. “Vivo – tre impressioni psicologiche di ambiente – campo di biade – aratro con buoi ed aratore – bimbi che giocano – sintesi di manifestazioni vitali con vibrazioni reali di tre diversi ambienti campestri”.
Diamante nero – Melanconia quieta e cadente. Espressione soggettiva di stati d’animo, obiettivamente sentiti e manifestati con aperta indipendenza dal simbolismo convenzionale”, “Cadenze melanconiche – espressioni di stati d’animo intermedi tra gioia e dolore con tendenza accentuatamente triste, sintesi di vibrazioni soggettive”, “Voluttuosa figura umana rovesciata in posa di contrazione dorsale convessa – ondulazione sensoriale di piacere intenso, spinto all’esasperazione dal parossismo passionale ed insano”, “L’uomo – riassunto di impressioni di due astrazioni e di verità centrale – ispirazione dal superuomo (Nietzsche), dell’apostolo di carità redentrice (Cristo di Nazareth) e della realtà fisio-psichica (uomo), espansioni, cadenze e sintesi centrale”.


Ancora per i ritratti “Megalomane”, “Mistico”, “Un uomo finito”, Romolo Romani: “Tutto ciò che di intimo vi è nell’anima di chi posa, io lo devo ottenere in profondità. Per me lo sfondo deve rappresentare tutto ciò che nell’individuo resta, oltre ai lineamenti del suo viso”.
Per “Cadenze Melanconiche” si ricorda Boccioni: “La nostra è una ricerca del definitivo nelle successioni di stati di intuizione”.
La presenza di personalità così significative a Genova ci ha insegnato ancora una volta che l’arte, come la natura, non fa salti; del resto era impossibile che l’ondata provocata da quei fermenti culturali, unici in Italia all’inizio del secolo, non potesse giungere in epoca più tarda, o almeno sino agli anni ’20.  
Né potevano bastare le evoluzioni aviatorie di Marinetti né il suono delle sirene dei “possenti cetacei”, così egli chiamava i transatlantici, per allontanare dal cielo terso delle Riviere l’arcobaleno di luce e di fede tessuto da Previati per il più grande successo espositivo che egli ebbe vivente.

Testo estratto da : E.Bertonati, Genova tra simbolismo e futurismo, Edizioni Galleria del Levante, Milano, 1978
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