Carrà e la Liguria.
Moneglia dovrebbe erigere un monumento a Carlo Carrà e al suo Pino sul mare, il dipinto del 1921 che ha cambiato la pittura europea del suo tempo.
Fra i fondatori del Futurismo, esponente di primo piano della Metafisica, di Novecento, del Neoprimitivismo e del Realismo nelle sue espressioni mitiche, magiche e naturalistiche.
Carrà ha attraversato tutti i territori della ricerca sperimentale e della ricerca espressiva della prima metà del XX secolo da protagonista e grande maestro.
La storia ligure di Carrà inizia nel 1917, lo stesso anno del suo incontro con Giorgio de Chirico.
Quando Carrà fu chiamato alle armi comprese che la guerra non era né una festa né la “sola igiene del mondo”.
Venne ricoverato quasi subito per disturbi psichici a Ferrara dove incontrò altri artisti disadattati dall’esperienza militare come de Chirico e il fratello Alberto Savinio, ai quali si aggiunsero Filippo de Pisis e Giorgio Morandi; con loro la Metafisica, la poetica più lontana che si potesse immaginare dal clamore della retorica patriottica e militaristica, diventerà “movimento”.
Nel 1917 Carrà si recò a Cengio, in Val Bormida, dove accompagnava la fidanzata che andava a far visita al fratello, occupato in una fabbrica di munizioni.
A Cengio Carrà realizzò una serie di disegni, primo esempio di una lettura del paesaggio, dopo molti anni di lontananza dal tema e dallo studio della realtà in cui si avvertono echi di Cézanne e ricordi giotteschi.
Una volta smobilitato, rientrò a Milano.
Carrà meditava molto ma dipingeva poco, soprattutto disegnava e scriveva su “Valori Plastici”, la rivista d’arte che rappresentava l’avamposto italiano del “rappel à l’ordre” che attraversava l’intera cultura europea.
Il 1920 era trascorso senza che l’artista riuscisse a realizzare o completare neppure un dipinto.
Il momento metafisico non era ancora esaurito, come dimostrano alcune opere del 1921, ma la crisi non era passata e in lui stavano nascendo nuove ansie e desideri che saranno descritti dallo stesso Carrà: “Dopo l’esperienza futurista e dopo quella metafisica, sento perla terza volta nuovi impulsi che mi portano ad una concezione in parte nuova; e spero che questo periodo sarà per me risolutivo. Mi sento veramente impegnato, dopo tante introspezioni soggettive, dopo tanti solitari pensieri ad un cordiale contatto con la natura e il vero […] Una delle prime espressioni della pittura che vado ora vagheggiando è Il pino sui mare del 1921 […] Con questo dipinto io cercavo di ricreare, per quanto le mie capacità lo consentissero, una rappresentazione mitica delta natura […] Avevo trascorso l’estate a Moneglia e mi ero messo a contatto col mare, con le rupi solitarie e i vasti cieli della Liguria […] L’estate del 1923 la trascorsi con la famiglia a Camogli, da dove riportai alcuni piccoli studi e le due marine della collezione di Roberto Longhi”.
Il pino sul mare era un’opera impensabile rispetto a tutta fa pittuta europea del tempo che diventerà fondamentale per l’arte degli anni Venti e Trenta.
Roberto Tassi la definisce “ […] un’opera inaspettata; di una assolutezza intatta, di moderna classicità, frutto di un avvenimento impossibile e per chiunque altro inimmaginabile, aver portato Giotto a passeggiare sulla spiaggia del mar ligure”.
Roberto Longhi l’assimilava ad una “illuminazione poetica di Ungaretti” e Wilhelm Worringer osservando Il pino sul mare, esclamava: “Di fronte a me stava un metro quadrato di tela, dalla quale spirava tutta quella ricchezza di vita, quella pienezza di cosa intensamente vissuta, nella cui possibilità di realizzazione artistica avevo perso ogni fiducia. L’ultimo che ancora m’aveva dato qualcosa di tutto questo, era stato Cézanne […]”.
Una pittura di paesaggio, in cui, accanto alla restituzione degli stati emozionali che possono suscitare il silenzio, l’immobilità, la solitudine, è presente un’osservazione puntuale dell’ambiente di Moneglia; la spiaggia rosata, lo sciabordio delle onde sulle rocce, il riquadro buio del tunnel della ferrovia che nel 1921 passava a filo del mare.
Nel 1940, in un manoscritto che l’artista aveva titolato La mia scoperta del mare, descriverà quel momento ritornando sulle ragioni che lo condussero in Liguria: “[…] Sebbene per natura io non sia un navigatore desideroso di continuamente vivere in paesi marini, tuttavia il mare ha sempre esercitato sul mio spirito una potente attrattiva […] Trascorsa l’estate del 1921 a Moneglia vi dipinsi alcune marine in un silenzioso raccoglimento […] l’estate del 1923 la trascorsi a Camogli […] Principio fondamentale delle mie ricerche era di fermare la commozione suscitata nel mio animo a contatto del mare”.
Nel “silenzioso raccoglimento” di Moneglia dove l’artista e sua moglie, al tempo incinta, risiedevano presso la Pensione Gemignani, nacquero Il pino sul mare, Marina a Moneglia e una serie di disegni che nel 1924 diventeranno compiute acqueforti.
Nell’estate del 1921 accadde a Carrà quanto era accaduto ad altri artisti i quali, a contatto con luoghi topografici affini ai propri paesaggi mentali, avevano scoperto una nuova espressività.
Anni di meditazioni, ricerche, crisi e sperimentazioni trovavano la loro risposta a contatto con la natura aspra, quasi selvatica della costa ligure, tra le rocce, i silenzi delle pinete, le abissali profondità del mare.
Un paesaggio essenziale che doveva apparigli come la trasposizione naturale della semplificazione plastica degli amati pittori del Tre e Quattrocento.
E’ come se in quei luoghi l’artista riuscisse a trovare conferma di quanto fino ad allora si accumulava nei suoi pensieri, nella sua tenace ricerca condotta tra esigenze di assolutezze formali e di emozioni verso gli
esiti di “una rappresentazione mitica della natura”.
L’idea di quel quadro era nella mente di Carrà da tempo, ma la sua realizzazione aveva bisogno di una rivelazione.
Ed è quanto accadrà “in questo paesetto di mare”, come Carrà descriveva Moneglia in una cartolina spedita a Soffici.
Un dipinto di solitudine ma anche di silenziosa melanconia che l’artista, memore della stagione metafisica, sostanziava in una lettura introiettata, mentale, del suo rapporto con la natura.
Due anni dopo, a Camogli, si aprirà una nuova fase della vita dell’artista destinata ad una più pacata contemplazione dello spirito.
Scriverà Roberto Longhi: “[…] Nei paesaggi di Camogli del 1923, che stupirono i sussurratori come una prima conversione, c’era invece un Carrà aumentato d’animo e d’apertura d’ali”.
A Camogli, dove il pittore soggiornò con la moglie e il figlio Massimo, fra agosto e settembre, in un piccolo appartamento affittato al civico 1 di Via al Porto, disegnò e dipinse Vele nel porto e Paesaggio ligure, oggi nella Fondazione Longhi.
La sua casa si affacciava direttamente sulle calate, sui moli, con le numerose barche a vela del piccolo porto che diventerà il soggetto pressoché unico dei suoi disegni.
Disegnerà all’imbarcadero e all’estremità dello scalo, da dove il suo sguardo volgeva verso il molo e la piazzetta del borgo con le alte case colorate e la chiesa, le masse rocciose del Castellaro che dalle balze di San Rocco scivolano in mare a Punta Chiappa.
Carrà disegnava “d’apré nature”, coglieva le emozioni suscitate dalla natura che tratteneva fissandole con rapidi tratti del lapis sulla carta.
Poi, nello studio, i disegni erano riletti, selezionati, attraverso una lunga e paziente rielaborazione mentale affidata alla memoria e alla fantasia.
Alcuni disegni, destinati ad assumere forma e colore sulla tela, venivano “svolti”, come scrive Carrà, “conferendo alle immagini di quelle sublimi realtà un’aura di viva poesia”, altri erano messi da parte, accantonati, per essere dimenticati o per essere evocati, diventando dipinti e incisioni, anche dopo anni, con una concezione assolutamente atemporale della realtà e dei luoghi stessi.
Per Carrà il disegno diventava una sorta di “pre-storia” della pittura destinata a sedimentare, qualche volta per pochi giorni altre volte per anni, emozioni, idee, percezioni, memorie.
Elemento chiave di un’autobiografia spirituale costellata di immagini della memoria che si snodano, si aggrovigliano, si sovrappongono, si intrecciano con la vita e la pittura dell’artista come ammette lui stesso: “Quasi tutti i miei dipinti nascono da un lavoro interiore oscuro e lento; in genere la trovata risolutiva non mi viene che dopo lunghe ricerche e magari dopo anni”. Una pratica di lavoro che confermava la dichiarazione del Manifesto tecnico della pittura Futurista, “ il pittore ha in sé i paesaggi che vuol produrre”, che Carrà ritiene valida per tutta la vita.
La straordinaria capacità d’inventiva di Carrà, la sua incessante meditazione e rielaborazione mentale affidata alla memoria non finisce di sorprenderci.
Carrà e la Liguria.
Negli anni successivi ai soggiorni di Moneglia e di Camogli e soprattutto nel dopoguerra, il paesaggio della
Liguria ritornerà nella sua pittura con particolare insistenza come attestano i suoi cataloghi: Tellaro (1930), Camogli (1940, 1941, 1957, 1963), Lerici (1930, 1949), Santa Margherita Ligure (1950), Diano Marina (1950, 1951, 1962), Bocca di Magra (1951, 1952, 1958, 1962), San Lorenzo al Mare (1951), Nervi (1952, 1953, 1954, 1955).
Non è possibile sapere se tutti questi dipinti siano nati da una osservazione diretta dei luoghi rappresentati, ma è torte la convinzione, guardando in particolare i dipinti di Camogli del 1957 e del 1963, che essi non siano altro che una rivisitazione dell’autobiografia spirituale dell’artista, un affioramento dai sedimenti accumulati nella sua memoria agevolato dalla consultazione di quei preziosi disegni che compongono il laboratorio mentale del pittore.