
In un’Italia sedotta dalla moda Liberty, le tendenze più avanzate che precedono la nascita del Futurismo in pittura (1910) sono Post-Impressionismo e Divisionismo da un lato e Simbolismo dall’altro.
Nell’ambito di questi linguaggi operavano ancora artisti maturati nell’Ottocento ma che furono senza dubbio punti di riferimento per i più giovani: Segantini morto nel 1899, Pellizza da Volpedo nel 1907, Previati nel 1920 e Medardo Rosso nel 1928.
Occorre quindi idealmente tenere questi Maestri nel quadro attivo dell’apertura di secolo, sebbene la nostra focalizzazione storico-artistica, per ragioni stilistiche proprie ad Amighetto Amighetti, prende in esame i movimenti e gli artisti che si formarono e debuttarono nell’ambito del Novecento.[1]
Prima di analizzare in maniera sistematica e analitica l’opera del pittore ligure Amighetto Amighetti nato a Genova nel 1902 e morto prematuramente nel 1930, ci sembra opportuno esaminare in modo sinottico gli eventi storico artistici che hanno caratterizzato e sicuramente condizionato il suo , seppure breve, percorso di eccellenza nel panorama artistico ligure.
Amighetti ha vissuto certamente in un periodo tra i più complessi e travagliati della storia dell’arte italiana, ha visto sovrapporsi e contrapporsi numerosi motivi culturali e varie implicazioni estetiche che si sono intrecciate all’interno di quella “restaurazione” dei valori formali alla quale tendono le forze più significative dell’arte e della critica italiana nell’immediato dopoguerra e che trovano, dal 1918 al 1922 , un luogo di convergenza e di confronto e anche un’ autorevole tribuna nella rivista “Valori Plastici” di Mario Broglio[2].
La rivista non si presenta con una linea programmatica, tuttavia è certamente indirizzata alla definizione del ruolo dell’ artista nella contemporaneità mentre si fa palestra di idee e anche di posizioni polemiche, di incontro e di scontro, di sviluppo e ricerca di nuovi linguaggi, in continua dialettica fra recupero della tradizione e originalità innovativa.
Soprattutto nel suo primo anno di pubblicazione “Valori Plastici” imporrà il rilancio di categorie come la classicità, la memoria e il mito.
Queste categorie sono tutte ben presenti e fondanti nella pittura metafisica che rappresenta l’espressione figurativa più adatta a narrare in forme non accademiche il recupero dei valori di ordine e di equilibrio dell’arte del passato.
È ben vero, tuttavia, che nel 1918-19 , l’esperienza metafisica di de Chirico e di Carrà può dirsi già quasi conclusa e che la rivista ne porta avanti il testimone soprattutto per gli assunti teorici dai quali far discendere le nuove direttrici della ricerca.
Gli anni dei “Valori Plastici”: così si definisce quel momento della cultura artistica italiana che va dalla fine dell’esperienza metafisica al nascere di “Novecento”.
Non v’è dubbio che la fortunata rivista di Broglio, alle cui pagine collaborarono fin dal primo numero artisti e critici spesso in contrasto fra loro e nel cui seno covarono forse più inimicizie che fraterne intese, sia stata la più viva espressione di una aspirazione comune e di un clima intellettuale tipicamente italiano.
Questo clima per la specifica natura del progetto che lo sostiene e per l’intento di definire addirittura “il carattere dell’ arte”, si distingue dalla generale tendenza del “rappel à l’ ordre” che negli stessi anni coinvolge tutta l’Europa.
Il classicismo, o meglio “l’italianismo artistico” invocato sulle pagine della rivista da chi aveva attraversato il rumore futurista e il silenzio metafisico, era un classicismo diverso da quelli degli idilli mediterranei di Pablo Picasso e del Cantico alle colonne di Paul Valéry.
Questo è lo scenario socio-culturale nel quale prende il via a Roma nel novembre del 1918 la pubblicazione della rivista “Valori Plastici”[3], sotto la direzione di Mario Broglio e con la collaborazione di Carlo Carrà, Giorgio de Chirico e Alberto Savinio.
Il terreno comune su cui si incontrarono i collaboratori di “Valori Plastici” era del resto un terreno italiano, con una storia italiana alle cui ultime vicende molti di loro avevano partecipato come protagonisti.
L’aspirazione era dar vita ad un’ arte positiva, libera da ogni residuo romantico e simbolista, priva di effusioni sentimentali e di lirismo, attenta solo alla ricerca di uno stile e di un linguaggio che si esprimessero nell’ambito di regole formali ritenute eterne ma variabili all’ infinito: ”la regola liberamente cantata dell’ eterno spirito formale italiano”, il rifiuto di ogni tensione drammatica non risolutiva, la conquista di una definizione formale che fosse propria solo alla pittura.
Queste, molto sommariamente, erano le idee che, nel delicato momento di passaggio che seguì l’ esaurirsi delle esperienze d’avanguardia, avevano riunito intorno a Mario Broglio un gruppo di artisti, di critici e di letterati il cui nucleo centrale era costituito da Carlo Carrà, Giorgio de Chirico e Alberto Savinio e ai quali si affiancarono Ardengo Soffici, Filippo de Pisis, Emilio Cecchi, Giuseppe Raimondi e altri ancora.
Erano idee che ognuno interpretava nel chiuso del proprio animo, secondo le proprie origini e il proprio temperamento, e sulle quali la silenziosa musa della Metafisica estendeva ancora il suo inquietante dominio.[4]
L’impulso che induceva intellettuali ed artisti a ritenere necessarie quelle aspirazioni, ciò che vi era in esse di generoso, di vitale, insomma di non reazionario, non era nato solo negli “anni dei Valori Plastici”, non era, per dirla in altre parole, solo il frutto del dopoguerra ma vi erano stati, ancor prima della guerra o negli anni della guerra, altri momenti in cui, nelle opere stesse o nelle idee espresse dagli artisti, l’affiorante necessità di una disciplina , di un ritorno alla norma, di un’ arte che fosse solo arte, si era sposata a un impulso vitale, a un sentimento che faceva intuire come dietro l’oggetto di quell’esigenza si nascondesse qualcosa di grande.
Allo stesso modo, l’analoga ricerca di specifico e di formalizzazione che è l’elemento aggregante della rivista di Broglio, si riallacciava a progetti che erano nati fra i turbamenti provocati dalla crisi del Futurismo[5] nella mente di Boccioni e, in maniera diversa, in quella di Carrà.
C’erano anche altri episodi nella vicenda delle avanguardie che testimoniano di quei legami: la ben nota Maternità di Severini o il bellissimo e luminoso Ritratto di Jeanne dipinti nel 1916
sembrano sperimentali inversioni dalla rotta delle sue meditazioni cubiste.
Eppure non debbono essere considerati come esercizi accademici ma piuttosto come esibizioni di abilità che presuppongono un progetto, una ricerca di stile rigorosa e consona alle sue più avanzate sperimentazioni cubo-futuriste di quegli anni espresse secondo una ferrea logica interna, nel rispetto delle regole storiche proprie della natura specifica della pittura.
Del resto, la stessa volontà formulata da Severini, a proposito di quei dipinti, di ritrovare una forma semplice che rammenti quella dei nostri primitivi toscani, ben si accorda a quella particolare ricerca di stile che, quando si era ormai esaurita l’avventura futurista, rivelava forti inclinazioni verso il primitivismo e l’arcaismo.
Scriveva Carrà a Soffici nel settembre del 1916
“La modernità credo che apparirà se modernità vi è nel mio spirito liberato finalmente da tanti pregiudizi avveniristici. Semplicità di rapporti tonali e lineari è ormai tutta la mia angoscia”.[6]
Sempre nel 1916, periodo in cui cominciava a meditare sul rapporto fra antico e moderno, vengono pubblicati su “La Voce”[7]
due suoi articoli: la Parlata su Giotto e Paolo Uccello costruttore. La riscoperta di Giotto e la rivisitazione dei primitivi presupponeva il progetto di “ritrovare il nostro ritmo, di ritornare alla nostra sodezza spirituale”; un progetto che era legato all’intensificarsi dei rapporti del pittore piemontese con l’ambiente toscano, in particolare con Ardengo Soffici e Giovanni Papini, e all’influenza di Roberto Longhi.
Si ricordi, in proposito, che il primo saggio su Piero della Francesca di Longhi[8] è del 1914 e che Longhi è indubbiamente all’ origine di quella tendenza che portava gli artisti a intendere la pratica del dipingere strettamente connessa alla conoscenza della storia della pittura.
“ Non vedo ancora una pittura novecentista annunciarsi con la chiarezza e la ricchezza con la quale si è in breve tempo delineata la nostra arte narrativa. Per ora i pittori che più attraggono i nostri gusti di novecentisti, che meglio corrispondono con la loro alla nostra arte, sono i pittori italiani del Quattrocento, Masaccio. Mantegna, Piero della Francesca. Per quel loro realismo preciso, avvolto in una atmosfera di stupore lucido, essi ci sono stranamente vicini.
Il pittore del secolo decimosesto s’interesserà in pieno e in modo esclusivo del mondo reale da lui dipinto, invece il pittore del Quattrocento aveva lasciato supporre un inquietante alibi del suo più segreto interessamento. Quanto maggior peso e solidità dava alla sua materia, tanto più teneva a suggerire che il suo amore più intenso era per qualche altra cosa attorno e al di sopra di essa. Con più diligenza e perfezione la sua mano serviva le tre dimensioni, più la sua mente vibrava nell’Altra.
Più sentiva si fedele e geloso della Natura, meglio gli riusciva isolarla avviluppandola d’un pensiero fisso alla sopranatura. Di qui lo stupore, espressione di magia. vero protagonista di quella pittura del Quattrocento, di qui quelle atmosfere in tensione, ancora più precise e vibranti che le forme della rappresentata materia.
Questo è puro “novecentismo”, che rifiuta la realtà per la realtà come la fantasia per la fantasia, e vive del senso magico scoperto nella vita quotidiana degli uomini e delle cose). [ … ] In nessun’altra arte troviamo nel passato parentele più strette che con quella pittura di cui abbiamo parlato, in nessuna vediamo così pieno quel “realismo magico” che potremmo assumere come definizione della nostra tendenza” [9]
Già Ardengo Soffici[10], che dal 1919 al 1923 scrive anche sulla rivista La Ronda[11],
aveva osservato che “il fatto arte comincia con la critica” e ne “Valori Plastici” più di una volta si era insistito sulla necessità di legare indissolubilmente l’arte alla cultura dell’ arte, cioè la pittura alla sua storia.
Dal 1913 al 1921 la pittura di Ubaldo Oppi rappresenta un tentativo di restaurazione dei valori intellettuali dell’arte che rivela tuttavia un’inquietudine di fondo, forse già un presentimento della futura conversione religiosa del pittore.
Nel 1922 Oppi è tra i fondatori di Novecento Italiano raccolto intorno a Margherita Sarfatti[12]
insieme a Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Marussig, Sironi[13].
È importante ricordare che “Novecento”, movimento di cui fa parte Oppi in una posizione di assoluta importanza, non è un’invenzione italiana.
Anche se gli artisti nostrani vi hanno avuto un ruolo fondamentale, corrisponde ad un orientamento della cultura internazionale nel momento della prima crisi delle avanguardie.
Il movimento novecentista interpreta un diffuso sentimento dell’arte, anticipato tra il 1918 e il 1921 da “Valori Plastici”, e ha in comune con “Ritorno all’ordine”, “Nuova Oggettività”[14] e “Classicismo” le istanze di rivalutazione della figura di uomini e cose, astraendole e isolandole dalla vita reale.[15]
Oppi interpreta queste esigenze senza dimenticare né tradire la “pietas” che l’ha sempre animato, conferendo alle sue opere schemi pittorici e compositivi di impronta quattrocentesca sovente filtrati da primitivismo e da realismo asciutto e metafisico.
Questo movimento, soprattutto nei primi anni e fino al 1926, è spesso caratterizzato da suggestioni di “realismo magico” e Ubaldo Oppi, viene proprio indicato da Franz Roh[16], grande teorico del Realismo Magico, come artista rappresentativo di questa formula che è mediazione tra naturalismo e metafisica, intesa come tensione e suggestione di sensi e significati nascosti delle cose e delle situazioni.
Il Gruppo del Novecento prima e Novecento Italiano poi non sono movimenti unitari per cultura e ideologia, ma lo sono per “tensione epica”, secondo Margherita Sarfatti nella sua “Storia della pittura moderna”.[17]
Ricordiamo che a Milano l’11 aprile 1910 viene pubblicato il Manifesto tecnico della pittura futurista “contro tutti i ritorni in pittura” i cui firmatari erano unicamente Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Giacomo Balla, Gino Severini e Luigi Russolo.
Così scrivono:
“Noi futuristi entriamo dunque in un periodo di costruzionismo fermo e sicuro, perché vogliamo fare la sintesi della deformazione analitica con la conoscenza e la penetrazione acquistate per mezzo di tutte le deformazioni analitiche. E questo per il colore come per la forma. Bisogna dunque sistematicamente evitare nelle scomposizioni e nelle deformazioni, l’analisi che ci imponemmo per molto tempo”
Affermazioni molto significative da parte di artisti che avevano fortemente creduto con giovanile entusiasmo nell’ avventura futurista e che li aveva portati ideologicamente fino al punto di scegliere l’intervento in guerra.
Ma fu proprio questo evento drammatico vissuto in prima persona e che aveva registrato fra le loro file la morte di Boccioni, Erba e Sant’Elia, che provocò la crisi delle teorie rivoluzionarie e la nascita delle nuove dichiarazioni d’intenti.
In effetti gli assunti che furono proclamati rappresentarono in nuce la griglia concettuale che di lì a poco verrà sviluppata e definita dal gruppo dei “Sette pittori del Novecento” riuniti e guidati da Margherita Sarfatti.[18]
Così Funi nel 1971 ci racconta la formazione, gli ideali e l’evoluzione di Novecento:
Come e, soprattutto, perché è nato il Novecento e cos’è stato non è facile dire oggi specie per chi, come me, ne è stato un protagonista. Mezzo secolo è trascorso dai nostri primi incontri, mezzo secolo che tutti sappiamo quanto denso di avvenimenti e di capovolgimenti, che ha visto nascere e morire idee, fatti e persone in un succedersi tale da allontanare nella memoria cose che pur mi appartengono profondamente.
Allora, dopo la prima guerra mondiale, vivevamo anni di grande confusione in cui ognuno dipingeva per se stesso senza ben sapere cosa fare o in un’atmosfera di diffusa esterofilia impregnata, per esempio, di tardo dissolutore impressionismo. Noi venivamo dal futurismo ma il futurismo era morto, non era una cosa che potesse durare per sempre. Era una pittura inventata e qualche volta senza una ragione.
Il suo scopo primario di abbattere ogni convenzionalismo, di distruggere tutte le forme comuni era stato raggiunto, il suo ruolo d’avanguardia europea (insieme a quello del cubismo) era stato giocato. Si imponeva ora, secondo noi, una riproposta della forma e dell’ordine.
Non con un ritorno comodo e facile alla plasticità della grande tradizione pittorica italiana, ma come un originale tentativo di conquistare nuovi valori plastici mediante “una ampia e forte visione sintetica”. Perciò, nel ] 920, con Sironi, Dudreville e Russolo firmai il manifesto “Contro tutti i ritorni in pittura”.
Da lì, nei miei ricordi, comincia il “Novecento”.
Il rifarsi liberamente a un Masaccio o a un Pier della Francesca era cioè per noi un riferimento più spirituale e civile che concettuale, perfettamente consci com’eravamo che ogni secolo col perenne mutare delle situazioni e della società è a sé stante e irripetibile e che, d’altro canto, le esperienze appena trascorse del futurismo, del cubismo e perfino del fauvismo non potevano essere semplicemente accantonate.
Tanto più che, come ho ricordato, venivamo proprio dal futurismo considerabile, per conto mio, come un cubismo più libero e articolato.
Comunque, parlando del Novecento non credo si possa parlare di un movimento vero e proprio ma semmai di uno stato d’animo e poi anche perché non ebbe un seguito immediato e incisivo anche se c’erano nomi importanti, come quelli di Sironi, Marussig, Dudreville, Malerba e Bucci.
Fu proprio quest’ultimo che durante una riunione tra pittori e scultori, nel 1922, reduce da esperienze europee, chiamò “Novecento” il nostro movimento rifacendosi cioè alla consuetudine chiamare “Il Trecento”, “Il Quattrocento” ecc. i periodi classici della pittura italiana. Qualche anno dopo, com’è noto, Massimo Bontempelli adottava lo stesso nome per una sua rivista letteraria.
Un notevole appoggio il movimento lo trovò fin dall’inizio in Margherita Sarfatti ch’era spirito libero e donna attivissima (fin troppo) e nell’intuizione dei galleristi Gaspare Gussoni e Vittorio E. Barbaroux.
La Sarfatti condivise le nostre idee e dalle colonne dei giornali cui collaborava (“Il Popolo d’Italia”, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, “Gerarchia”) contribuì a sostenere il nostro lavoro.
Ma ognuno di noi era assolutamente libero, se piattaforma teorica (o, peggio, politica) codificata e precostituita che lo vincolasse, e ognuno procedeva, anzi, secondo il proprio modo di vedere.
La prima mostra la tenemmo in una saletta della Galleria Pesaro a Milano, nel 1923 .
L’anno dopo il gruppo partecipò alla Biennale, presentato dalla Sarfatti, col nome di “Sei pittori del Novecento” (Marussig, Sironi, Dudreville, Malerba, Bucci e io) e nel 1926 alla Permanente si inaugurò la I Mostra del Novecento Italiano con la partecipazione di altri artisti che nel frattempo si erano avvicinati alle nostre posizioni come il Carrà, Tosi, Martini, Marini, Balla, Viani, Semeghini, Salietti, Licini, Mucchi, Wildt, Morandi, de Pisis, de Chirico, Rosai, Casorati. […] [19]
Di questi, tre erano firmatari del manifesto , Dudreville, Funi e Sironi, a cui si aggiunsero Bucci, Malerba, Marussig e Oppi.
Sull’ origine del nome “Novecento” siamo invece informati da Bucci che racconta con la consueta briosità:
“La cosa andò così. Il gruppo dei sette presieduto da Lino Pesaro chiese a me un nome, un titolo, per fregiarsene e sventolarlo come una bandiera.
Ci pensai su. E di nomi ne portai due, qualche giorno dopo: il Candelabro e il Novecento.
Il Candelabro fu messo subito da parte perché parve con le sue sette braccia, troppo da Sinagoga.
E sul Novecento si rifletté, si meditò, si tentennò.
Fu accettato, senza quell’unanime entusiasmo che mi sarei aspettato.
In una lettera a Vittorio Pica spiegai lungamente il perché del nome.
Allora, vent’ anni fa, i secoli gloriosi dell’ arte italiana si arrestavano al Settecento. Si diceva correntemente Quattrocento, Cinquecento, ma oltre Settecento non si andava.
Ora, perché non procedere con un Novecento? Un secolo d’arte, per definire un gruppo di sette pittori, era una fanfaronata, ne convengo; era una ’boutade’, ma spiritosa. Vittorio Pica [ … ] non fu di questo parere: non ammirò il Novecento. Anzi, tornato da un viaggio, lo sbatezzò. Da allora in poi fummo il gruppo di “Sette Pittori Italiani” fino alla esposizione di Venezia del ’24″. [20]
In realtà la storia non è così lineare. Lino Pesaro, probabilmente obbedendo a Pica, fa porre, nella vetrina dove esponevano a rotazione i Sette, la didascalia “Sette artisti italiani”. Margherita Sarfatti invece, nei suoi articoli sul “Popolo d’Italia” [21] tra il 1922 e il 1923, parla sempre di “Novecento” e di “Novecento Italiano” [22] e conia anche degli ossimori come “moderna classicità, “tradizione nuova”, “tradizione moderna”.
Sua è l’affermazione “il nuovo è solo una delle infinite modulazioni dell’eterno”.
Ciò non significa totale identificazione di modi e accenti, ma indica un obiettivo comune: il ritorno al figurativismo, il superamento di astrattismo, scomposizione, futurismo, cubismo e anche divisionismo e impressionismo.
Basta pensare a De Chirico, Severini, Martini, De Pisis per rilevare quanto gli stili e le ispirazioni siano diverse tra loro.
Il Novecento milanese invece insiste particolarmente su un naturalismo di tipo purista senza inclinazioni primitiviste e “…matura in un clima dove, mentre coglie l’ampio riflusso dell’avanguardia, fenomeno europeo di vasta portata ( e dell’avanguardia, sia pure moderata, sono transfughi Dudreville e Funi; è transfuga Sironi, già avanguardista a modo suo e da par suo) assiste ai soprassalti di Marinetti e dei futuristi rivoluzionari, urtati dalla piega borghese e parlamentare assunta dal fascismo; e tende l’orecchio al petulante, ma intellettualmente eccitante parlottio solitario di Ardengo Soffici (nel numero di marzo 1920 della sua rivista “personale” egli scriveva:”
Reazione dunque? Macchina indietro? Niente affatto.
Non ho alcun gusto per i conservatorismi o i ritorni al passato che vedo oggi in giro. Macchina avanti, perciò”[23]
Soffici[24] rappresenterà “in seno al Novecento, con la proposta del ruralismo come indicazione etica, a fazione “strapaese”[25], o di primitivismo naif ( il Trecento e il primo Quattrocento, di filigrana ancor gotica, contro il masaccismo evoluto di Sironi, il pierfrancescanesimo, il bellinismo e persino il raffaellismo degli altri), ne costituiscono addiirittura una fronda; benché essi siano i soli a costituire un loro sottogruppo novecentesco – ma anche questo atteggiamento può essere un modo di prendere le distanze.
La Sarfatti affronterà direttamente, in un articolo nel Popolo d’Italia del 12 marzo – un mese dopo l’apertura della mostra – la questione toscana: vedrà contrapposto “il gruppo di Firenze e il gruppo di Milano”, il primo sostenitore di una certa “semplicità” paesana, il secondo decisamente “classico”. Non prenderà partito e manterrà un tono di distacco critico; ma dietro le quinte, come si evince da alcune lettere, la contrapposizione rivela i caratteri dell’incompatibilità, se non dell’inimicizia.[26]
A proposito del “ruralismo “ e della “fazione strapaesana” toscana nella quale Amighetti si forma durante i suoi lungi soggiorni a Poggio a Caino, sua seconda residenza dopo Genova e dominio incontrastato di Soffici, a Firenze fu Raffaello Franchi[27] nel 1927 a dirigere il “gruppo toscano novecentesco”, che si richiamava alla parallela organizzazione lombarda, ma stabiliva anche una propria specificità di caratteri, come evidenziato da Soffici, inserendosi in tal modo in un dibattito complesso e stratificato; un movimento di scissione da Novecento, che celebra i valori dell’Italia contadina e provinciale nel nome di una tradizione nazionale di impronta popolare.
All’interno di tale dialettica, il raccordo istituito da Franchi vuole […] inaugurare a Firenze lo stile di intelligente modernità che, a Milano, costituisce il maggior titolo di gloria della Galleria Pesaro”[28].
Gli artisti toscani: Baccio M. Bacci, Bruno Bramanti, Alberto Caligiani, Giovanni Colacicchi, Franco Dani, Guido Ferroni, Italo Griselli, Marino Marini, Guido Peyron, Ennio Pozzi, Silvio Pucci, Ludovico Tommasi, Gianni Vagnetti, esponevano a Firenze presso la Bottega d’arte Bellenghi, dove nel 1928 figura Amighetto Amighetti.[29]
Comunque se Parigi continua a essere il centro della cultura internazionale, patria ideale per un artista, nei centri di elaborazione del pensiero a Firenze, Milano, Roma, Torino, intellettuali, poeti, giornalisti, scrittori e pittori fanno i conti con la sensibilità sgorgata dal dopoguerra come un fiume in piena. In ultima analisi i tre poli di Novecento si configureranno oltre a quello primigenio milanese, quello romano e quello toscano.[30]
La prima formazione di Novecento, ovvero quella milanese, è innovativa[31]. Anticipa un’attitudine, guarda al di fuori di se stessa.
Così sorse in Milano il gruppo del Novecento Italiano, con quel nome come parola d’ordine.
Gli si rimproverò persino di aver voluto ipotecare tutto per sé un secolo nuovo, appena cominciato. In realtà, quegli artisti volevano soltanto proclamarsi italiani, tradizionalisti, moderni.
Affermavano fieramente di voler fermare nel tempo qualche aspetto nuovo della tradizione.
La prima “Esposizione del Novecento Italiano” inaugurata il 1926 in Milano con un memorabile discorso agli artisti di Benito Mussolini, segna una data e una tappa decisiva di questa rinascita.
Già quel primo aggruppamento coerente, logico, disinteressato, severo e non settario di avanguardisti, d’ogni genere e d’ogni regione d’Italia, dimostrò la possibilità di giungere a una pratica concretezza d’ordine artistico, attraverso il sindacalismo corporativo, anche in questo campo.[32]
Gli artisti vicini alla Sarfatti registrano l’emotività di un’ epoca, dipingono in modo autentico, la loro visione non è autarchica: l’arte e la cultura sono ancora sovranazionali. [33]
Margherita Sarfatti[34] che in sostanza inventò, promosse e sostenne il Novecento e che più di tutti aveva le idee chiare circa i suoi scopi e i suoi reali spazi d’azione, faceva leva sulla volontà di Milano di tornare ad essere centro di movimenti artistici quale era stata dalla Scapigliatura al Futurismo.[35]
L’ideale artistico della Sarfatti appare orientato al cosiddetto ritorno all’ordine che è poi formula assai equivoca per indicare, a posteriori, ricerche abbastanza disparate.
Coniata da Raynal come rappel à l’ordre[36] in area purista francese, non aveva alla sua origine alcuna connotazione di richiamo al naturalismo ma al contrario a una misura intellettuale, in ipotesi anche astratta.
La Sarfatti pensava, idealmente, a uno stile solido e plastico, indirizzata com’era a riconoscere una funzione etica al monumentalismo e mostrando apprezzamento anche per le conquiste dell’avanguardia.
A voler cercare i precedenti di “Novecento” si può retrocedere ancora di un anno e riandare al 1919, quando si apre, a Milano, l’Esposizione Nazionale Futurista.
Qui la Sarfatti, recensendo la mostra, si stacca già nettamente dalla poetica e dal linguaggio di Marinetti che per l’occasione aveva scritto una prefazione al catalogo parlando di ricostruzione e di sintesi unitaria e soffermandosi in particolare, fra le decine di artisti presenti, su Sironi, Funi, Dudreville: tre futuri novecentisti.
Volendo però indicare un precedente più immediato e più definito della fondazione del gruppo, bisognerebbe citare la “Mostra di pittura contemporanea italiana”, aperta nel novembre 1922 alla “Bottega di Poesia”[37]che si può considerare già una mostra novecentista. Non è senza significato, del resto, che il brano che la Sarfatti dedica al “gruppo del ‘900” nel suo libro Suoni, colori e luci [38](1925) nasca in realtà non per i Sette, ma per gli artisti che esponevano a quella collettiva.
Sappiamo peraltro dalla testimonianza di Dudreville che Lino Pesaro temeva che i Sette volessero passare alla scuderia della Bottega, un timore dimostratosi ingiustificato ma non per questo meno plausibile.[39]
A Milano il 7 dicembre 1922 alla Galleria di Lino Pesaro[40] , “gallerista intelligente e generoso”[41] scopritore di talenti ma oggi del tutto dimenticato che morirà suicida “nel luglio 1938 oppresso dalla vergogna per aver venduto, del tutto involontariamente, come dimostrato, un quadro falso”[42], si tengono le prove per il Novecento.[43]
Si sono accese delle polemiche sull’autore del nome Novecento, scaturito in una riunione del Gruppo, da me convocato nella Galleria Pesaro, per la ricerca del titolo. Anselmo Bucci, facente parte del Gruppo con Leonardo Dudreville, Achille Funi, Pietro Marussig, Emilio Malerba, Ubaldo Oppi, Mario Sironi, con la sua caratteristica esuberanza di dialettica, proponeva di definire il nostro Gruppo col nome del secolo nel quale esplicava la sua azione. Sosteneva la sua tesi con le ragioni estetiche, che il Gruppo si proponeva di raggiungere e che ben potevano meritargli, sebbene in anticipo e per antonomasia, il titolo di Novecento. […..]
Per stabilire una tregua fra le opposte opinioni, si stabili di chiamare il Gruppo” Sette artisti italiani”, definizione numerica senza alcun significato spirituale.
Ma il nome Novecento era stato ormai felicemente lanciato, e per quanto molto discusso, era penetrato nei cervelli e negli spiriti. Tutti ce ne siamo inconsapevolmente impossessati, e questo nome restò e si diffuse. [44]
All’inizio sono sei: Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Gian Emilio Malerba, Pietro Marussig e Mario Sironi. In seguito si aggrega Ubaldo Oppi, per una parentesi fugace ma incisiva.
Ma qual era la poetica del gruppo? Una poetica, in effetti, si stava delineando tra quei sette pittori che pure erano così diversi per origine e formazione: Funi, ferrarese, veniva dal Futurismo; Bucci, marchigiano, dal Simbolismo e dal Postimpressionismo; Dudreville, veneziano, da un’astrazione a sfondo simbolico e dal realismo; Malerba, milanese, dal Postimpressionismo; Oppi, nato a Bologna ma vicentino d’adozione, dal Primitivismo; Marussig, triestino, dal linearismo mitteleuropeo.
Anche se nei tardi anni venti il “Novecento” cercherà di raccogliere senza troppe distinzioni tutta l’arte italiana nata nel dopoguerra, in quel 1922 si ragionava ancora di princìpi da condividere: non di regole stilistiche, alla maniera delle avanguardie, ma di un orizzonte comune nel cui ambito potevano convivere linguaggi diversi.
Prima di tutto i novecentisti aspiravano a una “moderna classicità”. Volevano tornare alle “idee generali” o “idee maestre” dell’ arte, come Margherita amava dire, cioè a una composizione costruita solidamente e secondo proporzioni armoniche, ma sottoposta a quella sintesi di cui avevano discusso tante volte nelle serate del mercoledì.
Volevano, ancora, dipingere cose quotidiane sottraendole al corso del tempo, secondo quelle suggestioni platoniche e idealiste che circolavano nell’Europa dell’epoca.[45]
Saranno poi Alberto Salietti, con le sue deformazioni e gli arcaismi formali e Arturo Tosi, con i paesaggi di pacata tenerezza, in cui si dissimula tanta finezza tipicamente lombarda, che completeranno la fisionomia embrionale di Novecento Italiano.
Salietti non fu fra i fondatori del “Novecento” nel 1922-23.
Il suo nome compare fra la fine del 1924 e l’inizio del 1925, Dudreville scrive di una proposta fattagli in tal senso da Funi a Biennale “già chiusa”‘, dopo l’uscita di scena di Oppi, Malerba, Dudreville, di Lino Pesaro e di Bucci, quando è chiamato a far parte del Comitato Direttivo insieme con Tosi,Wildt e al gallerista Gussoni, nello stesso momento in cui “Novecento” diventa il “Novecento Italiano”, trasformandosi da gruppo sostanzialmente milanese a movimento dalle dimensioni, dai caratteri e dalle ambizioni nazionali e internazionali.
Già nel 1924-25 Salietti poteva contare su una consolidata conoscenza sia con la Sarfatti sia con altri protagonisti del gruppo.
La Sarfatti si era occupata di Salietti già nel 1918 e nel corso del 1922 gli aveva dedicato una notevole attenzione dalle colonne del “Popolo d’Italia” in occasione delle diverse partecipazioni dell’artista alle mostre di Bottega di Poesia, della Fiorentina primaverile e della Biennale di Venezia.[46]
In questo ambito si colloca anche la figura Felice Carena
che occorre approfondire poiché rappresenta il pittore che influenzerà in maniera preponderante l’opera di Amighetto Amighetti del quale è stato il maestro.
Fin dall’inizio del secondo decennio del Novecento Carena realizzò opere di grande respiro connotate da un solido plasticismo e da un classicismo alimentato dalla profonda conoscenza della storia dell’arte e in particolare della pittura veneta fra Cinquecento e Settecento, ma non dimentiche della lezione di Courbet, di Manet e di Cézanne.
Portò a completa maturazione questa tensione classicista in quelli che sono stati definiti
“i grandi idilli”, composizioni monumentali incentrate sul tema della figura umana nel paesaggio e dominate da un senso di sospensione metafisica, di tranquillità non ignara però del male di vivere, da un desiderio di pace, un tendere alla serenità più che alla certezza del loro possesso[47].
All’epoca delle principali mostre del “Novecento”, Carena vive a Firenze[48] ed è vicino a critici fiorentini
d’adozione, anche se romani di nascita, come Maraini[49] che riserverà a Carena una sala personale alla Biennale di Venezia del 1926 e a Ojetti.
Margherita Sarfatti, al contrario, si interessa per la prima volta a lui vedendo le sue opere alla I Biennale Romana del 1921.
Recensendo la Biennale Romana, in cui lamentava l’assenza di vari artisti che lavoravano alla ricostruzione della forma, la Sarfatti aveva sottolineato la forte presenza di Carena ormai lontano dagli sfumati francesizzanti:
“Carena, è vero, il quale si orienta negli ultimi atteggiamenti verso le forme d’arte di più chiara modernità, abbandonando le brume pallide già care ad Eugène Carrière: Carena, è vero, ha qui un’esposizione personale”
e in occasione della Biennale veneziana del 1922 scrive:
“[Carena] è affine, per un certo ordine di ricerche, per la volontà di procedere con sodezza e semplicità, oggi si dice, tanto per intendersi, neo-classicismo, il gruppo lombardo, dove figura tra i primi Achille Funi”.
Il fitto dialogo di Carena con l’antico e la sua capacità di reinterpretare gli echi del passato con un’essenzialità moderna, lontana dall’imitazione scolastica dell’ eclettismo, lo accomunano alle posizioni del gruppo sarfattiano.
Egli si confronta con un’antichità dai confini cronologici allargati, capace di estendersi da Bellini e Antonello da Messina fino al manierismo e al Seicento.
Le sue ascendenze sono quindi diverse da quelle di “Novecento” che, almeno inizialmente, guarda soprattutto a Giotto e al Quattrocento.
Questa differente ispirazione e, più ancora, il precoce dialogo col Seicento, insinuano nel suo classicismo degli accenti realisti che lo allontanano dal purismo novecentista.
D’altra parte nella seconda metà degli anni venti e in particolare verso la fine del decennio, anche il “Novecento” diventa sempre meno novecentista: la pittura dei neoclassici si intride di cadenze romantiche. “Neoromantici” vengono chiamati Sironi, Marussig, Tosi, quando espongono alla Biennale di Venezia del 1928 lasciandosi segnare da nuovi influssi. [50]
Anche la distanza di Carena dal mondo “seicentesco” si attenua e non è quindi un caso che Mario Tozzi , nell’introduzione alla mostra Art Italien Moderne[51], aperta a Parigi alla Galerie Bonaparte nel novembre-dicembre 1929, citi l’artista piemontese fra i pittori che caratterizzano maggiormente il “Novecento”, collocandolo in una cerchia ristretta che comprende Sironi, Funi, Oppi, Marussig, Malerba, Salietti e Casorati.[52]
Antonio Maraini, scultore e critico d’arte, non si ispira al platonismo che pervade le pagine contemporanee della Sarfatti, ma cerca un’ “astrazione” espressiva che è altrettanto lontana dal realismo, pur rimanendo carica di umori vitali.
Perfino l’idea di sintesi, cioè di eliminazione dei particolari attraverso un filtro geometrico o comunque mentale dell’immagine, era centrale nella poetica della Sarfatti e ritorna, insieme con quelle di equilibrio e di controllo cromatico, nelle parole del critico, che sottolinea nei dipinti di Carena “una sintesi tanto salda della forma”, “un equilibrio tanto sicuro di composizione”, “una vibrazione tanto riposata del colore”.[53]
I pittori amici della Sarfatti da tempo sono presenze assidue nel suo salotto dove hanno discusso e steso un accordo: mostre in gruppo, nessun contratto con altre gallerie che non siano quelle di Pesaro, nessuna iniziativa individuale non concordata.
Alla mostra d’esordio vera e propria, nel marzo 1923, c’è anche Benito Mussolini, portato dalla Sarfatti: l’uomo nuovo al battesimo dell’ arte nuova[54]
Non si può governare ignorando l’arte e gli artisti. L’arte è una manifestazione essenziale dello spirito umano; comincia con la storia dell’umanità e seguirà l’umanità fino agli ultimi giorni. Ed in un paese come l’Italia sarebbe deficiente un governo che si disinteressasse dell’arte e degli artisti. Dichiaro che è lungi da me l’idea di incoraggiare qualche cosa che possa assomigliare all’arte di stato. L’arte rientra nella sfera dell’individuo. Lo stato ha un solo dovere: quello di non sabotarla, di far condizioni umane agli artisti, di incoraggiarli dal punto di vista artistico e nazionale. Ci tengo a dichiarare che il governo che ho l’onore di presiedere è un amico sincero dell’arte e degli artisti” (B.Mussolini)[55]
E’ probabile che Mussolini non amasse i nudi, i ritratti, i paesaggi, le nature morte e gli oggetti di vita quotidiana rappresentati dai novecentisti.
E’ vero però che del movimento artistico apprezzasse il ritorno all’ordine dopo i frastuoni futuristi e il nonsense del dadaismo.[56]
La prima mostra inaugurata alla Permanente di Milano il 14 febbraio del 1926, ha una risonanza larghissima. [57]
Cosi scrive la Sarfatti nella lettera circolare del 18 maggio 1925:
La prima mostra del “Novecento Italiano” […] intende convocare per disinteressate finalità di lavoro e di bellezza, i migliori artisti delle nuove generazioni, l’opera dei quali rechi un’impronta di vigoroso e nobile travaglio spirituale, e giovi a porre i termini di alcuni essenziali problemi.[58]
La stampa accetta come scontato il ruolo di orientamento dello stile nazionale che essa si è assunta anche con la formula organizzativa che ha scartato la giuria e ha proceduto per inviti.
Ancora MussoIini:
“Novecento italiano. Queste parole non soltanto sono un’affermazione d’orgoglio. Sono una promessa e un consapevole giuramento. Un voto che gli artisti d’Italia fanno a se stessi e alla patria”[59]
La Sarfatti e il suo gruppo, con l’appoggio della Galleria Milano, giocano ora tutte le loro carte sulle mostre internazionali che, tenendo alto il prestigio del Novecento, valgono a controbilanciare gli attacchi in patria.
Dopo qualche tempo le fila di questo Gruppo vennero raccolte dalla signora Margherita Sarfatti, che organizzò a Milano alla Permanente nel 1926 una esposizione, definendola: I. Esposizione del Novecento Italiano.
Aveva essa senza dubbio dimenticato le altre manifestazioni precedenti, per le quali quella da lei organizzata, era la terza e non la prima, e quand’ anche si volesse non menzionare quella della Galleria Pesaro del 26 marzo 1923, deve certo ammettersi come precedente quella, forse più polemica, di Venezia nel 1924.
Se il Novecento abbia risposto alle alte finalità artistiche e nazionali, per le quali è sorto, non lo so.
Lo dirà il tempo. È ancora troppo presto per giudicarlo dal punto di vista artistico. Troppe passioni, pro e contro, turbano oggi la serenità e l’obbiettività del giudizio.
Credo di non errare affermando che l’Esposizione alla “Permanente” nel 1926, più che una manifestazione di tendenza, fu una rassegna, non dei valori artistici italiani, poiché se ciò si volesse affermare, si dovrebbe rilevare che molti di grande interesse, furono dimenticati, ma dei più disparati e contrastanti temperamenti artistici, alcuni dei quali privi di significato. Dirò, ancora, che nulla ha giustificato gli inviti, rivolti ad artisti, i quali nessuna affinità possedevano con gli esponenti del Novecento. Da quella esposizione si delineò una situazione, che non so come e in quanto abbia giovato allo sviluppo di una tendenza, che doveva essere prettamente italiana.[60]
Novecento è temerario negli intenti ma non è unito, risente di beghe interne e della fragilità di cultura provinciale, che lo guarda come una cricca, per di più capeggiata da una scrittrice. Gli Ojetti e i Vittorio Pica, i Pavolini e i Lionello Venturi – che pure cercheranno di strapparle le migliori personalità che lei segue da tempo – lamentano la mancanza di programma e di coerenza del movimento, parlano di indifferenza morale.
Ma a cosa si riferiscono, all’arte o alla politica? Margherita, invece, vuole dare un contributo raffinato al sentimento antiavanguardista che attraversa l’Europa. Cosa meglio delle opere per renderne conto?
Nel testo scritto per il catalogo [della Biennale di Venezia del 1924[61]] spiega per prima le ragioni dell’eclettismo e la libertà dei suoi artisti, che hanno “combattuto a contatto di gomiti” per portare nelle opere “ognuno una visione propria” e condividere alcune “essenziali unità”. [62]
Gli Archivi del Novecento[63] rivelano, specialmente nei carteggi intercorsi tra il ‘27 e il ’30, una febbrile opera promozionale per la serie di manifestazioni oltre confine. Non sempre si tratta di mostre con la specifica etichetta novecentista, bensì più genericamente di mostre d’arte italiana; peraltro, il criterio di tener larga la base espositiva, invitando artisti di qualità in un raggio ampio di scelte, è seguito dalla Sarfatti come da Salietti e Gussoni: con speciale riguardo per gli italiani di Parigi.
Dalla seconda metà degli anni venti, Novecento si è fatto conoscere attraverso una frenetica serie di mostre all’estero: Parigi, Ginevra, Zurigo, Amburgo, Berlino, Amsterdam, L’Aja, Lipsia, Nizza e ancora Zurigo, Ginevra, Parigi, Berlino, e poi Budapest, Basilea, Berna, Monaco, Buenos Aires, Montevideo, Stoccolma, Helsinki, Oslo, senza contare le esposizioni in Italia e la partecipazione a rassegne organizzate da altri.
Il movimento attira l’attenzione di vari critici.
La mostra di Lipsia del 1928, per esempio, è curata personalmente da Franz Roh, l’allora famoso teorico del realismo magico, che viene appositamente a Milano a scegliere le opere da esporre.
Le mostre svizzere vedono la partecipazione di Sartoris, Lionello Venturi e Scheiwiller; quelle parigine l’interessamento di Waldemar George; a quella di Buenos Aires del 1930 collabora attivamente Raffaello Giolli.
Un censimento anche rapido può confermare che molte delle opere d’arte italiana moderna acquisite dai musei europei sono state acquistate in occasione delle rassegne novecentiste.[64]
Dopo il successo del 1927 alla Kunsthaus di Zurigo,” i parigini” quali de Pisis, Tozzi, de Chirico, Paresce, Campigli, Prampolini e Casorati per fare nomi importanti, inviano opere all’esposizione di Amsterdam del 1928, che ottiene buoni risultati e un ampio articolo illustrato nella rivista Maandblad.
La presentazione di Margherita Sarfatti al catalogo della seconda mostra del Novecento [inaugurata a Milano il 2 marzo 1929]
è un dcumento di reticenza e d’incertezza: per una pagina e mezzo decanta scopi e risultati della mostra del ‘26, i successi della serie di esposizioni all’estero, ma non abbozza alcuna linea programmatica né alcun piano generale a proposito della mostra in atto; e si limita a indicarne le opere come “nobili e limpide”.
Questo per quanto riguarda la specificità stilistica o di tendenza. Sul versante politico, invece, il pronunciamento è molto più esplicito che per la prima mostra; l’espressione “artisti fascisti” viene usata liberamente, con il sottointeso che si tratti di un blasone da mettere in evidenza, senza il sospetto che alcuno intenda ripudiarlo.
Il panorama delle opere è all’insegna di un moderato eclettismo che tende a uniformarsi su una falsariga di naturalismo purista.[65]
La scarsa intesa con Valori plastici è palesata dalla irriducibilità della cultura romana e toscoromana contrapposta a quella milanese e dalla reciproca impossibilità a intendersi e a legare realmente. In questa ottica va interpretato pure il rispetto che i novecentisti continuarono a testimoniare per l’Ottocento puntando sulla continuità della tradizione lombarda a sostegno e garanzia delle loro nuove fortune.
L’importanza di questo testo programmatico sta proprio nel fatto che lo si possa considerare un manifesto cerniera fra i due momenti culturali: chiude la stagione dell’avanguardia e pone le basi teoriche del nuovo corso con la prima definizione di quella ricostruzione della forma che sarà appunto la base del “Novecento”.
In questo breve volgere di anni lo scenario italiano si presenta pertanto diviso fra i due poli culturali di Roma e di Milano o se vogliamo, di “Valori Plastici” e “Novecento”, con una differenza ideologica di fondo: il primo guarda al passato e alla lezione classica rinnegando la modernità ed elogiando con de Chirico il ritorno al mestiere, con una forte accentuazione individualistica e di rifiuto delle teorie politiche socialiste e limitando il ruolo dell’artista all’interno della società; il secondo, che pure si riaggancia alla grande lezione trecentesca e quattrocentesca, costruisce la nuova ricerca partendo dalle esperienze dell’ avanguardia e su queste innesta un linguaggio innovativo, rivendicando inoltre il ruolo centrale dell’ artista all’interno della società, con posizioni teoriche che lo porteranno, soprattutto con Sironi, all’ elaborazione di progetti interdisciplinari per la ricostruzione dell’immagine figurativa, architettonica e oggettuale di un intero periodo storico.
Torniamo alla presentazione della Sarfatti nel catalogo della seconda mostra di Novecento per individuare in un passo polemico verso “Valori Plastici” la differenza tra le due posizioni:
“Ora però che noi stiamo ricostruendo, e che altri con noi tentano di ricostruire, vediamo intorno a noi che per questo non si va verso una nuova e sintetica costruzione plastica, ma si cerca invece appoggio, sostegno e falso coraggio nel ritorno puro e semplice alle già troppo note costruzioni plastiche degli antichi. In queste imitazioni, diversi sono i modelli che i vari pittori si propongono.
Così vediamo in Francia alcuni cubisti che imitano Ingres, in Germania alcuni espressionisti che imitano Grunewald e in Italia alcuni futuristi che imitano Giotto”.
Ad oggi le più attente analisi di “Novecento Italiano”
si devono a Elena Pontiggia e ancora prima a Rossana Bossaglia[66] che trae queste conclusioni:
“Il Novecento italiano non fu dunque arte di stato né ai suoi esordi né alla conclusione; e non fu, si è visto, un vero e proprio movimento; non ebbe un carattere politico più di quanto non lo avessero altri raggruppamenti del medesimo periodo e non esercitò, se non nelle eccitate denunce dei suoi avversari, un forte e sistematico potere. La ragione del suo esser stato identificato a posteriori con l’arte del regime sta soprattutto nella fortuna – o sfortuna – del nome: quella formula “Novecento” finì per raccogliere disparate manifestazioni che rappresentavano comunque una novità rispetto al tradizionalismo eclettico, ma insieme non si ponevano in linea con le avanguardie storiche. Figlio reazionario delle medesime avanguardie, parve riunire, specialmente a posteriori, tutta l’area delle manifestazioni artistiche che non costituissero fronda al regime e che, anzi, si prestassero a rappresentarne determinati “valori”. Una sua fisionomia stilistica può essere riconosciuta nei due momenti del realismo magico – tra il ’23 e il ’26 – e della pittura murale sironiana, dopo il ’30; la sua uscita più rappresentativa nella mostra di Buenos Aires del 1930. Il giudizio storico, appare, pertanto, complesso e deve tener conto della contraddittorietà dei termini della questione. Il giudizio criticoartistico deve, una volta di più, distinguere opere e persone: alcuni capolavori della pittura contemporanea italiana nacquero anche in quell’ambito; e nemmeno per caso: rappresentando la nostra parte nell’ampio dispiegarsi per tutta Europa dell’arte naturalistico-purista durante il terzo decennio del secolo.”[67]
Mentre Elena Pontiggia[68]:
Che cos’è stato il “Novecento” alle sue origini? Si potrebbe dire che è stato soprattutto un sogno: il sogno di un Rinascimento del XX secolo, di una avanguardia riconciliata con la tradizione, di una classicità moderna (espressione contraddittoria, come dire un’eternità contemporanea, ma nessuno l’avvertì come tale). Quello che stupisce, infatti, nella breve vicenda dei sette artisti, Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Marussig, Oppi, Sironi, che nel settembre del 1922 iniziarono a riunirsi nella galleria di Lino Pesaro, a Milano, è la loro tensione visionaria. Nessuno di loro era sconosciuto, ma nessuno si poteva considerare famoso. Nessuno aveva ricevuto grandi riconoscimenti, nessuno ricopriva ruoli accademici. Eppure pensavano di ricostruire l’arte italiana. Il loro progetto ambiva a ristabilire il “primato”, come allora si amava dire, della nostra arte e si accompagnava al miraggio (o, dovremmo dire, alla tragica illusione) di un’Italia nuova.
Il “Novecento” si chiamò subito italiano, perché affondava le radici in una sensibilità nazionalista che la guerra mondiale e la vittoria stessa, per “tradita” che fosse, avevano intensamente alimentato. Del resto tutti i ”Sette” (tranne Dudreville, che era stato riformato, e Malerba) avevano combattuto al fronte, dove avevano visto cadere tanti loro compagni: Boccioni, Sant’Elia, Erba, Camona e altri, altri ancora. Il sogno, e il bisogno, di una rinascita si radicavano anche in quella drammatica esperienza.[…]
Lo stile del “Novecento” originario si racchiude in due concetti: quello di classicità moderna e quello di sintesi. Il primo, condiviso senza eccezione da tutti i Sette, indica la volontà di ispirarsi all’ antico, senza però praticare la copia come faceva de Chirico, uno dei bersagli polemici del gruppo. […] Sintetismo, ancora, era stata definita la pittura di Gauguin, e sulla nozione di sintesi si fondava il classicismo del suo discepolo Maurice Denis, autore di un saggio, Teorie (1912), ben conosciuto nella cerchia novecentista. Di sintesi aveva parlato Benedetto Croce, il cui libro Ciò che è vivo e ciò che è morto nella filosofia di Hegel. che aveva appassionato l’ambiente culturale milanese, era incentrato sul concetto di dialettica come sintesi degli opposti. Ma la sintesi era, soprattutto, una categoria fondamentale del vocabolario futurista, quasi un corollario della tanto decantata velocità, perché indicava la scomposizione dinamica della forma. Ed è la sensibilità dell’ultimo futurismo che, per metamorfosi ed evoluzioni successive, trapassa nel “Novecento”. Da queste diverse fonti deriva un concetto che, per Margherita SarfattÌ, significa l’eliminazione dei particolari nella unità della volumetria. Sintetico, in questo senso, è l’ultimo Cézanne, l’ultimo Boccioni, il Picasso “italiano “. Nel concetto di sintesi, dunque, trovano giustificazione le forme puriste, le masse potenti ed elementari, i tagli netti del “Novecento”. […]
La sintesi, che nasceva dalla geometrizzazione dei volumi e quindi dalla precisione del segno, era in realtà il dato stilistico più caratterizzante del “Novecento”. Ma non era perseguita allo stesso modo da tutti i sette artisti. Qui, infatti, si apriva il ventaglio delle differenze. Allo stile radicalmente sintetico di Sironi e di Funi, che a volte giungeva fino all’elisione e al troncamento delle forme; alla sintesi evidente ma addolcita di Malerba, di Marussig e di Oppi si contrapponeva il disegno più naturalistico di Dudreville e, almeno nei primi anni Venti, di Bucci. […]. Composizione, costruzione sintetica dei volumi, predominio gerarchico del chiaroscuro e del disegno sul colore: sono queste caratteristiche, dunque, che accomunano i “Sette”, o comunque la maggior parte di loro. Sono caratteristiche che allora erano talmente evidenti, da sembrare ovvie […] Oltre a queste costanti stilistiche, abbastanza generali da poter essere declinate in forme diverse, ma abbastanza specifiche da costituire un clima e un gusto, il “Novecento” si alimentava di un pensiero che condivideva con tutto il classicismo del periodo […].
Ad un anno dalla prematura scomparsa di Amighetti, il Novecento Italiano è soprattutto un’antologia dell’arte italiana contemporanea e il suo ruolo verrà preso nel 1931 dalla Quadriennale romana: creatura di Cipriano Efisio Oppo[69], si sostituirà al progetto sarfattiano e sancirà la fine, se non dell’esistenza pratica, almeno della necessità teorica del movimento.
Sempre nell’arco del secondo decennio del ‘900 si sviluppa una terza corrente che in comune con Valori Plastici e Novecento ha il ritorno alla figurazione e che erroneamente viene confusa con quest’ultimo: il gruppo o la corrente di Realismo Magico.
Alcuni artisti che ne fanno parte espongono con gli artisti di Novecento ma hanno una sfumatura che li definisce e li rende diversi: realizzano opere di clima, di incantata sospensività. La corrente prende il nome da una definizione di carattere letterario: Massimo Bontempelli,[70] scrittore e redattore della rivista “900”[71] , traduce una definizione del critico tedesco Franz Roh[72] che già nel 1925 parlava di “Magischer Realismus”.
Gli artisti di Realismo Magico provengono in parte da Valori Plastici, in parte da Novecento, in parte sono artisti che non avevano aderito né al primo né al secondo gruppo.
Sono artisti che sostengono un ritorno alla figurazione che non guarda però alla tradizione pittorica del passato né si impegna a creare una nuova tradizione pittorica italiana, in realtà è come se ripensassero in parte alla metafisica traducendola in quotidiano, realizzando dipinti di una semplicità estrema, ritratti e figure domestiche.
Ad una attenta analisi delle loro opere ci si accorge quanto esse siano statiche quasi come figure ritagliate e applicate: questi artisti parlano evidentemente della realtà ma ne rappresentano l’aspetto più misterioso e inquietante, ovvero magico.
La realtà non si racconta, ma prende coscienza di sé.
I quadri degli autori di Realismo Magico (Donghi, Trombadori e altri ancora) non vanno guardati come dipinti semplici quasi come immagini fotografiche, ma richiedono una interpretazione non ingenua.
Anche in Germania Franz Roh ritrova gli stessi motivi in molti pittori che un tempo avevano fatto parte della corrente espressionista come Otto Dix e George Grosz e che poi moderano la loro forte espressività.
Per doverosa completezza del quadro storico-artistico del periodo in cui vive Amighetto Amighetti, anche se non riconducibile agli stilemi che lo hanno contraddistinto, occorre prendere in considerazione anche il movimento Futurista[73]
che per primo, in Liguria, porta quel fervore di avanguardia letteraria e artistica la cui data di nascita è segnata dal Manifeste du Futurisme, pubblicato da Filippo Tommaso Marinetti[74] su “Le Figarò” il 20 febbraio 1909.[75]
I temi fondamentali del Manifesto[76] vennero individuati da Marinetti nell’amore del pericolo, nell’esaltazione dell’energia, nel culto per il coraggio e l’audacia, nell’ammirazione per la velocità, nella lotta contro il passato “noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie”; nell’apologia del movimento aggressivo “l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno” e della guerra “sola igiene del mondo”.
Ora, se è indubbio che il movimento futurista, potenzialmente rivoluzionario, finì con il confluire nel massimo di reazione possibile, e cioè nel fascismo, è altrettanto vero che il Futurismo fu l’avanguardia più avanzata della cultura italiana dei primi decenni del Novecento[77] e colse genialmente un’istanza avveniristica: “l’epoca della grande industria… doveva avere forme nuove di arte, di filosofia, di costume, di linguaggio”[78] superando le arcadie istituzionali.
L’intuizione di un futuro condizionato dalla scienza e dalla tecnologia diviene, nel primo Marinetti, volontà di lotta contro la “museificazione dell’arte” e ricorso spregiudicato alle tecniche di persuasione di massa. [79]
Sulla scia del movimento letterario, sotto la guida dello stesso Marinetti, un gruppo di pittori lanciò a Milano, nel febbraio del 1910, il Manifesto dei pittori futuristi e nel 1912 il Manifesto tecnico della pittura futurista[80], firmato, quest’ultimo, da Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Giacomo Balla, Gino Severini, Luigi Russolo.
“Il gesto, per noi, non sarà più un momento fermato del dinamismo universale: sarà, decisamente, la sensazione dinamica eternata come tale. Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido. Una figura non è mai stabile davanti a noi, ma appare e scompare incessantemente. Per la persistenza delle immagini nella retina, le cose in movimento si moltiplicano, si deformano, susseguendosi, come vibrazioni, nello spazio che percorrono. Così un cavallo da corsa non ha quattro gambe: ne ha venti, e i loro movimenti sono triangolari” [81]
In questo passo si coglie già uno dei principali fondamenti della pittura futurista: l’intenzione di raffigurare non degli oggetti statici ma degli oggetti in continuo movimento, cercando soprattutto di rappresentarli conservando l’immagine visiva del loro dinamismo.
La sensazione dinamica doveva essere ricercata moltiplicando le immagini, scomponendole e ricomponendole secondo le direzioni del loro movimento.
Caratteristica prima, infatti, della pittura futurista fu l’abolizione nell’immagine della prospettiva tradizionale, per un moltiplicarsi di punti di vista che fossero in grado di esprimere il suo dinamico interagire con lo spazio circostante.
Tutti reduci e ancora legati almeno fin quasi al 1911 all’esperienza divisionista, i pittori che aderirono al movimento rivalutarono la vibrazione cromatico-luministica intesa in funzione simbolica come antesignana della vibrazione dinamica futurista.
I futuristi interpretarono in vario modo il comune motivo di pandinamismo. Boccioni, non dimentico della lezione cubista, lo tradusse in forme cariche di emotività espressionisticamente deformate e aggregate nelle linee-forza; Carrà in forme che non rinunciavano mai totalmente ai valori plastici e pittorici; Balla in immagini che scomponevano il movimento secondo una metodologia analitica e sperimentale che ne evidenziava la struttura sequenziale; Severini in immagini che si frantumavano in una molteplicità di piani-luce dal tenue e raffinato cromatismo di derivazione seuretiana; Russolo in immagini dall’accesa e contrastante cromia ancora legata allo Jugentil.
Al superamento del divisionismo e all’evoluzione in senso astratto-geometrico del futurismo concorsero la conoscenza del cubismo e i rapporti con l’ambiente dello Jugendstil tedesco. [82]
La morte di Boccioni nel 1916 e il contemporaneo passaggio di Carrà e Severini a soluzioni vicine al cubismo determinarono lo scioglimento del gruppo milanese e il trasferimento a Roma del centro di gravitazione del movimento, con la conseguente nascita del secondo futurismo. Momenti di adesione alla poetica futurista sono rilevabili nell’opera anche di altri artisti, come Sironi, Soffici, Rosai, Martini. [83]
Attorno a Marinetti si riunì un gruppo d’artisti che nel 1929 firmarono anche il Manifesto dell’aeropittura[84] (21), fra cui Prampolini, Depero, Cangiulo, Rougena Zatkova, Dottori e ancora Balla, assertori della necessità per l’arte futurista di una progettazione totale, da loro tradotta nell’ampliamento degli interessi al campo del teatro, del cinema, dell’architettura, del cartellonismo e di una più concreta interferenza col reale come le tavole polimateriche di Prampolini e della Zatkova.[85]
Alla prima fase del secondo futurismo (1918-28), legata alla cultura postcubista e costruttivista, seguì la seconda fase (1929-38), partecipe degli svolgimenti del surrealismo in cui emerse l’attività del gruppo torinese Fillia, Rosso, Diulgheroff, Oriani, Farfa.
Dopo la fondazione del movimento futurista saranno numerose le occasioni di incontro di Marinetti e dei suoi compagni d’arte con la vivace realtà ligure [86], ricca di conferenze, concerti, tournée teatrali, mostre.
Nella Seratafilfurista al Politeama genovese del 1914,
con Marinetti, Boccioni, Carrà, Mazza e Russolo con i suoi “intonarumori”, Marinetti, malgrado il pubblico lo accolga con fischietti, campanelli, raganelle e lancio di legumi, esordisce elogiando Genova, “città … americana, fervida di traffici e sonante di officine”[87].
Un anno dopo, nello stesso teatro, la rappresentazione del Teatro sintetico futurista è impedita dagli schiamazzi del pubblico e dal lancio di arance e patate sul palco. Interviene Marinetti che si dichiara stupito di una simile accoglienza da parte di Genova, “città futurista per eccellenza”, affermazione che viene accolta con fischi e pernacchie finché l’oratore sarà costretto a ritirarsi.
Marinetti[88] sarà affezionato e fedele frequentatore per tutta la vita della Liguria, del mondo dei suoi traffici portuali e della sua industria, soggiornando principalmente a Oneglia, Levanto, Albisola, nelle località del Golfo della Spezia e a Rapallo[89], trascorrendovi con la moglie Benedetta e le figlie lunghe vacanze.
Occorre tuttavia ricordare che già dal 1914 il pittore Carlo Erba frequentava Riva Trigoso nei mesi estivi, una presenza interessante per seguire il percorso di quegli artisti, in gran parte lombardi, assidui della Riviera di Levante.
Proprio nel 1914 Carlo Erba è fra i fondatori del gruppo “Nuove Tendenze”[90]con Leonardo Dudreville[91] e Achille Funi[92], due artisti amanti del Tigullio.
Numerosi e significativi sono i pittori che avvertono il nuovo linguaggio estetico di cui restituiscono un’originale mediazione fra futurismo e simbolismo.
Oltre allo stesso Giuseppe Cominetti[93],
amico di Severini e Marinetti negli anni parigini, incontriamo: Cornelio Geranzani[94],
che nel 1910 espone con Balla a Roma; Enrico “Chin” Castello[95], e Sexto Canegallo[96] ,
compagni d’arte a Milano di Romolo Romani quest’ultimo firmatario della prima edizione del Manifesto; Domingo Motta[97],
cui si devono l’invenzione del “cromometro” e di un prontuario per la traduzione dei suoni in colori, suo è il dipinto La metropoli del futuro del 1918.[98]
Sono gli artisti di un’originale stagione dell’arte a Genova cui Emilio Bertonati[99]
dedicherà una significativa mostra della Galleria del Levante, dove la problematica scientifica del “complementarismo”[100] si fonde con ansie moderniste e continuità di gusti e culture.
“La persistenza del gusto simbolista e della tecnica divisionista si avverte ancora negli anni venti nella personalità di Emanuele Rambaldi che vive e lavora a Chiavari dove è nato e ha avuto singolare sviluppo un audace movimento in favore dell’arte moderna, quando ancora tutto il resto della Liguria andava avanti con le idee di mezzo secolo fa e pareva nemmeno avvertire che uno spirito nuovo stava scuotendo l’arte italiana dal suo letargo.
E intendo, con questo, parlare del Gruppo di Azione d’Arte e dei giovani che lo componevano, che hanno battagliato con animoso e sincero animo: e pareva combattessero contro mulini a vento, mentre erano gli iniziatori della buona battaglia per il rinnovamento dell’arte ligure.
Rambaldi e Podestà, il primo con la sua pittura,ma anche con la progettazione e decorazione di mobili e di ceramiche, che ben presto avrà l’appoggio teorico di Adriano Grande, il secondo con una combattiva attività di critico e organizzatore, trasferiranno rapidamente quei fermenti dalla provincia alla città, da Chiavari a Genova, conquistando nuovi adepti”.[101]
I casi più significativi saranno quelli di Oscar Saccorotti[102] e del nostro Amighetto Amighetti
che conoscono un’evoluzione in senso novecentista intorno al 1925.
Emanuele Rambaldi risulta il primo pittore ligure di Novecento italiano, o meglio, per usare un’affermazione attribuita ad Arturo Martini, “l’autore del primo dipinto moderno apparso in Liguria”.[103] E’ autodidatta Emanuele Rambaldi[104]
ed esordisce in pittura con esperienze di carattere Dada e una serie di opere, comprese fra 1919 e 1922, che risentono di echi fauve e puntinisti, ma sono rielaborati attraverso una personalissima metrica futurista risultando quindi il primo che recepisce e concretizza le nuove tendenze nazionali in Liguria.
Il giovane artista mostra il proprio interesse per l’innovazione e così come si era avvicinato all’espressionismo, al fauvismo e al puntinismo, alle lezioni di Matisse e del futurismo, ora avverte in Valori Plastici e nel movimento sarfattiano uno spirito nuovo capace di agitare le arti.
Egli afferma con convinzione:
Penso che il movimento novecentista sia l’unica forza originale italiana di questo inizio secolo[105]
L’ascendenza metafisica traspare in alcuni suoi dipinti a partire dal 1924, nei quali la soda plasticità “novecentesca” s’intride di un’assorta luce di meriggio mediterraneo, evidenziando gli apporti di Casorati, Carrà, Valori Plastici e della rilettura italiana di Cézanne[106] “scoperto” alla Biennale del 1920 anche da Amighetti e da tutti quegli artisti del nascente Novecento che proprio in quegli anni avevano eletto Chiavari e la Riviera di Levante sede dei loro soggiorni estivi.
I pittori milanesi ospiti di casa Rambaldi a Chiavari erano l’amico Leonardo Dudreville con Achille Funi ed in seguito anche Alberto Salietti.
Di quel periodo scriverà più volte Attilio Podestà:
“[…] a Chiavari venivano da qualche anno in estate i dioscuri del “Novecento”, Funi, taciturna sfinge, Salietti, impareggiabile segretario; a Zoagli s’era installato il decano, Tosi […]”. [107]
Arturo Tosi, “il ricco della compagnia”, è l’unico che può permettersi di far arrivare da Parigi le tavole con le riproduzioni dei contemporanei, che mostra eccitato agli altri: ecco le ricerche di Cézanne, di Renoir, i colori di Matisse e la virata di Derain dall’espressionismo a una pittura d’ordine.[108]
“Alberto Salietti è uno dei più forti, dei più equilibrati, dei più intelligenti pittori del gruppo del Novecento [ …] Come il Tosi, come il Funi, fu soprattutto sincero e semplice e seppe portare il dono dell’equilibrio al movimento con tanta fede iniziato [. .. ]. E poi Funi scontroso burbero, leale, simpaticissimo temperamento di artista, tra i più forti e dotati nel gruppo delle nuove tendenze, noto in tutto il campo artistico internazionale, per i suoi quadri di classico sapere, di solida costruzione, di toni violenti e sapienti [. .. J. E con lui ricordiamo Tosi, il buon “papà” del Novecento, il paesaggista insigne, di largo respiro, che derivando dalla ricca sorgente della pittura lombarda ha saputo darle forza e rilievo plastico moderno.
Il buon Tosi, il “vecchio” per modo di dire, tra tanti giovanissimi, ha dipinto a Chiavari, a Zoagli, a Cavi di Lavagna, a Santa Margherita, qualcuno dei suoi quadri più luminosi, più aperti, più succosi […] [109]
Di Dudreville, Funi e Salietti troveremo fra 1920 e 1924 le opere fondamentali di una linea dell’ arte italiana che si snodava parallelamente e singolarmente sincrona nelle date e nei luoghi, alle ricerche che conduceva Carlo Carrà intorno al 1921-’23.
Nasceva una pittura che recuperava un realismo classicamente severo, bloccato e magicamente assorto su orizzonti silenziosi.
Achille Funi sarà presente in Liguria per molte estati fra la fine degli anni ’10 e gran parte degli anni ’20. Fra le sue testimonianze pittoriche più persuasive i dipinti Autoritratto in riva al mare, 1918,
La sorella del 1923 con sullo sfondo, attraverso la finestra semichiusa da un tendaggio, il cantiere navale degli Scogli, il quartiere dei pescatori e dei marinai di Chiavari come lo si poteva vedere dalla finestra di casa Salietti.
Il passaggio a livello degli Scogli sarà dipinto da Funi in Paesaggio, pubblicato da Margherita Sarfatti[110] ed anche il soggetto di Rambaldi nel Paesaggio a Chiavari o Passaggio a livello, tela con cui esordisce alla Biennale di Venezia nel 1928.
Un documento utilissimo quanto divertente per comprendere i legami d’amicizia fra gli artisti citati, è in una cronaca del 1924 illustrata da una gustosa vignetta in cui compaiono Rambaldi, Salietti, Castagnino[111], Dudreville, Funi, Podestà e Falcone[112] sulla spiaggia di Chiavari. [113]
Il quartiere degli Scogli, autentica metafora dell’estetica novecentista di Riviera e trasposizione mediterranea di sensazioni metafisiche, diventerà il soggetto di una ricerca nel sogno e nella magia di numerosissime opere: oltre a quelle citate di Funi e Rambaldi, che dipingerà scorci del quartiere innumerevoli volte, anche di Alberto Salietti, Leonardo Dudreville, Mauro Reggiani e, pochi anni dopo, di Piero Marussig , e più tardi ancora di Lino Perissinotti.[114]
Dudreville dipinge Chiavari e Cantiere (1920)
Funi La terra (1921),
Salietti Riviera ligure (1921).
Negli anni venti soggiorna in Riviera anche Carlo Carrà. Nell’estate del 1921 è a Moneglia dove dipinge Il pino sul mare
e Marina a Moneglia, due opere straordinarie destinate a definire un’idea della pittura che sarà fondamentale per l’artista e per l’arte del suo tempo.
Carrà continuerà a frequentare la Riviera di Levante ancora per qualche anno soggiornando a Camogli che sarà il soggetto di dipinti e di numerose incisioni e disegni.
Poi, contemporaneamente a Achille Funi, lascerà la Liguria per la Versilia.
A proposito di Pino sul mare scriverà nella sua autobiografia:
“[…] con questo dipinto io cercavo di ricreare, per quanto le mie capacità lo consentissero, una rappresentazione mitica della natura è […]. In esso è impresso quel tanto di ordine nuovo che ero andato maturando con studi appassionati sulla realtà naturale dal 1918 in avanti” “[115]
Fedelissimo alla Riviera ligure per tutta la sua lunga vita sarà Arturo Tosi[116]
che scriverà, a proposito della sua ricerca di un’aderenza più intima al sentimento agreste della natura, di averla trovata nelle belle vallate del Bergamasco e sui colli della Riviera Ligure.
I colli della Riviera Ligure diventano i fondamentali della geografia pittorica di Tosi che vi soggiorna ogni anno nei mesi fra l’inverno e la primavera dal 1915 fino al gennaio 1956. Datano 1915 alcuni dei primi acquerelli di Portofino.[117]
Oltre a Tosi, Funi, Salietti il movimento novecentista si completa attraverso altre presenze più o meno assidue: Ubaldo Oppi, Anselmo Bucci, Mauro Reggiani, Virginio Ghiringhelli ma anche Piero Marussig,
Mario Vellani Marchi e Raffaele De Grada, tutti assidui frequentatori di casa Salietti a Chiavari.[118]
E’ dalle opere di questi artisti e da quelle straordinarie amicizie giovanili che ha origine il cambiamento di registro: dalla sperimentazione ad un nuovo realismo al quale non fu estraneo Amighetto Amighetti.
Nel 1925 in un clima di dibattito estetico e nel fervore organizzativo di Novecento, nacque il “Gruppo d’Azione d’Arte” fondato da Emanuele Rambaldi, dal critico Attilio Podestà, dallo scultore Francesco Falcone, dall’architetto Enrico Pierazzi e dal giornalista Metello Pescini, che rappresentò il primo movimento d’arte moderna in Liguria, mutuando l’iniziale esperienza del gusto di Novecento.
Il Gruppo di Azione d’Arte sarà animato da personalità come Dudreville e Funi, fondatori del gruppo originario, Salietti che subito entrerà nel Comitato direttivo come segretario, Arturo Tosi[119], assiduo frequentatore di Zoagli e della Riviera Ligure, chiamato a far parte del Comitato direttivo sempre nel 1925.
La modernità del “Gruppo” stava anche nel pensare l’arte secondo una visione meno romantica e più partecipe della vita quotidiana.
Il “Gruppo” promosse nel 1926 la prima e purtroppo unica “Mostra chiavarese d’arte moderna”[120]
Per comprendere quel momento bisogna ricorrere ancora alla penna di Attilio Podestà:
“A Chiavari è nato e ha avuto singolare sviluppo un audace movimento in favore dell’arte moderna, quando ancora tutto il resto della Liguria andava avanti con le idee di mezzo secolo fa e pareva nemmeno avvertire che uno spirito nuovo stava scuotendo l’arte italiana dal suo letargo. E intendo, con questo, parlare del Gruppo di Azione d’Arte e dei giovani che lo componevano, che hanno battagliato con animoso e sincero animo: e pareva combattessero contro mulini a vento, mentre erano gli iniziatori della buona battaglia per il rinnovamento dell’arte ligure” [121]
Rambaldi e Attilio Podestà, ai quali ben presto si aggiungerà l’appoggio teorico di Adriano Grande[122], riuscirono a trasferire quei fermenti innovativi dalla provincia alla città, da Chiavari a Genova, congiungendoli con le esperienze che personalità come Francesco Messina, Antonio Giuseppe Santagata[123] e Arturo Martini, quest’ultimo dal 1920 residente a Vado Ligure, stavano realizzando in sostanziale isolamento dalla società artistica del capoluogo.
Tutti questi artisti saranno presenti alla Prima mostra di Novecento Italiano del 1926 e conquisteranno nuovi adepti diventando i protagonisti di Novecento in Liguria: Pietro Dodero[124], Oscar Saccorotti, Amighetto Amighetti, Eso Peluzzi[125], Luigi Bassano[126], Armando Cuniolo[127], Alberto Helios Gagliardo[128], Alfredo Ubaldo Gargani[129], Cornelio Geranzani, Domenico Guerello[130], Evasio Montanella[131], Giovanni Patrone[132], Paolo Stamaty Rodocanachi[133], Adelina Zandrino[134], Lino Perissinotti[135], Raffaele Collina[136], Giacomo Picollo[137], Giovanni Battista De Salvo[138] e Mario Gambetta[139].
I novecentisti liguri riconosciuti dallo storico e critico d’arte Guglielmo Usellini sono:
Galletti[140], Santagata, Prini, Messina, Peluzzi, Garibaldi, Bordoni, Micheletti[141], O. Grosso[142], [Armando] Barabino[143], Geranzani, Saccorotti, Rambaldi, Patrone, [Luigi] Bassano, Solari[144], Rolando Monti, Rodocanachi, [Nanni] Servettaz[145], Armando e Angela Vassallo, Agostani[146], Cavasanti[147], Garibaldi [148]
Ancora nell’ambito rivierasco meritano una doverosa attenzione i percorsi di Enrico Paulucci,
figura di spicco dei “Sei di Torino”,[149] Guglielmo Bianchi[150], Francesco Falcone e Rodolfo Castagnino.
Le mostre annuali genovesi della Promotrice, sostituite alle soglie degli anni trenta dalle Sindacali, e le cronache culturali animate da Grande e Podestà restituiscono l’immagine di un gusto ormai generalizzato ad artisti di diversa formazione e generazione al punto che Valori Plastici e Novecento saranno, come osserva Gianfranco Bruno[151], l’unico movimento italiano che vedrà a Genova una reale adesione degli artisti e il conseguente nascere di opere di notevole interesse[152]
In questa fase di formazione dei pittori novecentisti non deve essere sottovalutato l’afflato di novità apportato da Felice Casorati con la sua mostra personale alla Galleria Valle di Genova nel gennaio del 1930.[153]
In Rambaldi, così come in Amighetti, all’interesse per la tradizione pittorica trecentesca e quattrocentesca che affascinerà un’intera generazione di pittori italiani, si univa lo studio di Cézanne, che l’Italia aveva scoperto alla Biennale di Venezia del 1920. Rambaldi e Amighetti sviluppano l’amore per la strutturazione della forma svolta con chiarezza, la ricerca della semplificazione sintetica della natura, la geometrizzazione dei volumi, la tendenza alla monumentalità, l’intonazione arcaica non insensibile alla pittura di Carrà, di Casorati e di Soffici, una fissità dei movimenti, un’assolutezza di volumi e di atmosfere, l’esplorazione di tempi sospesi e misteriosi che guardano alla Metafisica.
Entrambi riuscirono a coniugare la plasticità novecentista con atmosfere di trasparenti ascendenze metafisiche avvolte nella luminosità della Liguria.
Comunque, se Rambaldi è stato il primo autentico rappresentante ligure del “Novecento”e con il suo movimento ha introdotto il nuovo linguaggio artistico in Liguria, Alberto Salietti[154], il segretario di “Novecento Italiano”, è stato colui che ne ha trasferito i dettami e gli stilemi da Milano alla Liguria.
La presenza di Salietti a Chiavari nasce da una scelta fondamentalmente ambientale di chi, vivendo e lavorando a Milano, scopre la bellezza ancora primitiva di quella parte della Riviera Ligure ancora molto lontana dalla stagione del grande turismo internazionale che vivevano già Rapallo e Santa Margherita.
Ci piace però pensare alla scelta di Chiavari non solo per il clima, il mare, i caratteri di una città che si faceva amare, come scriveva Orio Vergani, ma anche per la “sua forza interiore” data dalla semplicità “quasi mistica che si manteneva in stato di purezza nel quale sbocciava il miracolo luce-colore” e ancora ci piace pensare alla scelta di Chiavari anche per le sue tradizioni d’arte e cultura, per i fermenti nuovi che le rimesse di danaro o i ritorni dalle Americhe determinavano nell’economia e nel volto urbano della città e per la presenza di una borghesia colta e per nulla provinciale, attenta alle novità dell’arte e della cultura.[155]
Così Dudreville scrive nel 1919 in riferimento al giovane amico Salietti:
“Tutta la sua forza è istintivamente tesa ad armonizzare linee e colori.
In lui la statica della composizione risponde costantemente alle esigenze della più composta euritmia. Le sue gamme cromatiche, soprattutto, ancorché talvolta un po’ magre e accostate per stretta parentela, compongono infallibilmente un insieme gradevole e saporoso. Quando la natura gli si presenti con aspetto troppo dissonante o violento o la trascura o la forza a costringersi in apparenze più calme al suo gusto. Deforma, o meglio, forma secondo le intime necessità del dipinto ma, in ogni caso, il suo ritocco alla realtà non raggiungerà mai l’eccesso, il paradosso plastico, non arriverà per certo a quel grado di esaltazione del reale che tanto spesso nei giovani si risolve in un errore angoscioso.” [156]
La prima opera chiavarese certa è datata 1921 ed è dedicata ad una immagine della città che ritornerà con insistenza anche negli anni successivi fino a diventare una sorta di ambiente simbolo, prima per la pittura di Salietti stesso e poi anche per gli altri pittori che soggiorneranno a Chiavari.
L’ambiente è quello del modesto quartiere degli “Scogli”, una zona abitata da pescatori e da operai del Cantiere Navale che sulle tele di Salietti si trasfigura fino ad assumere le dimensioni del sogno e della magia, di quei caratteri specifici che faranno definire la sua pittura e quella di alcuni suoi contemporanei Realismo Magico.
Salietti cerca la magia fra le povere casette del quartiere scrostate dalla salsedine e dagli anni, fra le barche tirate a secco sulla spiaggia, l’orizzonte lontano del mare e del cielo, la vela solitaria, la collina di Bacezza con la ferita della cava, la cabina inquietante che pare una presenza metafisica come il mastodontico ponte della ferrovia a Zoagli ; e anche e soprattutto nel passaggio a livello col vicino tunnel della ferrovia, soggetto amatissimo da Rambaldi, nella casetta del casellante, nel rosseggiante tetto dell’Istituto Torriglia, nelle piccole case scomparse sulla marina, nei pini e nella scabra collinetta di giottesca memoria che ritorneranno molte volte nella sua pittura.[157]
Nel ponente chiavarese Salietti trova anche casa, una palazzina posta sull’Aurelia nei pressi della “curva del conte”, da cui si vede il mare, il promontorio di Portofino, fondale violaceo di tante sue opere, e l’amato quartiere degli “Scogli”.
E’ questo il panorama in cui scelse di vivere e di lavorare: una Riviera davvero magica, ricchissima di poesia e di schietta bellezza ma anche di una vitalità artistica e culturale probabilmente irripetibile.
A comprendere l’irripetibilità di questa esperienza ci aiuta uno scritto di Raffaele de Grada dedicato a Salietti:
“[… ] a Chiavari, in Liguria, non ci fu un viale di pini o di acacie, non ci fu una casa rosa o azzurra che, nel profumo del mare, rimase nascosta a Salietti in quella zona come un cane da caccia andava a fiutare il “motivo” e la Riviera di Levante, prima degli scempi edilizi, ha avuto in Salietti un pittore fedele e glorioso … I luoghi e i momenti di ispirazione di Salietti sono infiniti”. [158]
E ancora Filippo De Pisis su Emporium nel 1942:
“Salietti è uno di quei pittori in cui il disegno (si badi non “ il tratto”) non vive separato dal colore. La sua pasta pittorica densa e semplice, si adagia su un disegno leggermente accademico, improntato a linee sobrie, con una tendenza alla geometrizzazione e alla messa in valore dei piani essenziali. Quando il suo colore si accende di un palpito vero, quando uno spunto davvero sentito e colto felicemente nel vero, l’opera di Salietti ci persuade e ci commuove […]”[159]
A Chiavari, nel quartiere degli Scogli,
come conferma la lapide murata sulla facciata, Salietti ha vissuto e lavorato per 35 anni, dal 1926 al 19 settembre 1961, data della sua morte.
Qui, come scritto sulla lapide, “portò la poesia”, ma portò anche la migliore e più attenta cultura figurativa del suo tempo, facendo diventare la sua casa, e di conseguenza Chiavari e la Liguria, uno straordinario cenacolo d’arte.[160]

Gli anni in cui Amighetto Amighetti è fanciullo e poi adolescente sono connotati artisticamente da molteplici spunti: le tradizionali spinte realiste e veriste, caratterizzate da innovazioni legate all’aspetto percettivo dell’immagine di matrice post-impressionista o da rapporti con la contemporaneità sociale, nell’ottica del superamento di paesaggismo, ritrattismo e pittura di genere, vengono affiancate da istanze innovative di carattere divisionista, simbolista e da talune ipotesi di ispirazione espressionista. Spesso risulta difficile isolare i singoli stimoli poiché si intrecciano e danno origine ad inaspettate germinazioni.
Una delle certezze su cui ci si basa per comprendere l’evoluzione della cultura figurativa ligure tra la fine del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo, è la presenza nel capoluogo di Plinio Nomellini[161].
Giunto a Genova nel 1889 circa, diffonde il divisionismo e il simbolismo sul territorio e si pone come punto di riferimento per la generazione degli artisti più giovani, contribuendo all’accelerazione dei processi di evoluzione della cultura figurativa locale. Lascia Genova nel 1902 dopo averne influenzato profondamente l’ambiente tanto che artisti di varia estrazione culturale partiranno dalla sua “eredità”: oltre a pittori come Giuseppe Sacheri [162] e Angelo Vernazza[163], che mostreranno di aver assorbito la sua lezione, anche autori della portata di Rubaldo Merello[164], Giuseppe Cominetti e Domenico Guerello, per citarne solo alcuni, sapranno evolvere le sue sollecitazioni con accenti personalizzati e originali.
Anche altri pittori influenzarono la pittura ligure. Nomellini non fu l’unico a trapiantare i germogli del rinnovamento nell’ambito del divisionismo e simbolismo in ambito ligure e non sono da trascurare le influenze esercitate da Pellizza da Volpedo[165] , che espose più volte alla Promotrice genovese, da Gaetano Previati[166] che soggiornò periodicamente a Lavagna dal 1902[167], e dallo scultore Leonardo Bistolfi, poco presente sul territorio, ma legato da profonde amicizie ad artisti locali che rappresentò un riferimento certo per quelle esperienze che nel simbolismo cercarono una via di fuga dagli aspetti puramente decadentistici di quella cultura.
Bistolfi si dimostra inoltre rivolto ad un’integrazione delle arti di sapore tutto modernista, determina una progressiva mutazione del linguaggio soprattutto nella scultura.
Le componenti che influenzano la sua opera, ovvero le connotazioni tardo-preraffaellite oltre che rodiniane e le suggestioni del simbolismo franco-belga, incidono sensibilmente sui giovani artisti che sono intenti a superare i resti naturalisti del passato e concorrono a consolidare le sparse tendenze locali al modernismo, testimoniate dalla Mostra artistico-industriale di Genova del 1901.
La presenza di opere di Bistolfi alle esposizioni locali e al cimitero monumentale di Staglieno, saranno un riferimento sicuro per scultori come Edoardo De Albertis[168] ed Eugenio Baroni[169].
Che l’ambiente ligure dell’ultimo decennio dell’Ottocento fosse particolarmente recettivo alle dinamiche simboliste e moderniste, lo testimonia anche il dibattito che si andava svolgendo nel la Società Ligure di Letture e Conversazioni Scientifiche, frequentata tra gli altri da Eugenio Olivari[170] e Paolo Stamaty Rodocanachi[171], o sulle diverse riviste letterarie ed artistiche, che si succedono numerose tra gli anni novanta ed i primi due decenni del nuovo secolo.
Con l’estendersi delle esperienze simboliste agli inizi del Novecento ed il loro contestualizzarsi nel più generale quadro del modernismo, il panorama dei rapporti si fa sempre più composito: alla prevalenza di rimandi alla cultura inglese e franco-belga si affiancano le suggestioni austro-tedesche di Von Stuck e di Böcklin, che trovano riscontro nell’opera di Cesare Viazzi[172], Antonio Discovolo[173] e di Pietro Dodero.
Nel capoluogo ligure dalla metà degli anni novanta alla metà del secondo decennio del Novecento, avviene la fusione delle esperienze simboliste con quelle moderniste, in un clima assai complesso che darà origine a molteplici episodi di contaminazione culturale.
Proprio in questo clima si protrarrà il fenomeno divisionista fino alla fine della Grande Guerra che, dalle influenze simboliste e moderniste, trarrà una sua specifica autonomia, e faranno la loro comparsa i primi episodi di carattere variamente espressionistico.
Tra le personalità di maggior spicco del periodo in questione si possono annoverare: Rubaldo Merello, Domenico Guerello, Giuseppe Cominetti, Cornelio Geranzani, Sexto Canegallo, e Dante Mosè Conte[174].
Del primo, il più celebre tra i pittori liguri dell’ultimo secolo, va ricordato l’accento poco convenzionale riservato alla tecnica divisionista: partito da modalità volte a restituire il lato emotivo del paesaggio tramite la proiezione della soggettività, della sensazione e dell’emozione, piuttosto che a sviluppare un’analisi strettamente percettiva, egli vira a ricercare l’emblematicità delle componenti naturali.
Questo processo è evidenziato dal progressivo abbandono della tecnica divisionista e dall’utilizzo di un impianto pittorico e cromatico più libero in cui segno e materia corrispondono sempre maggiormente alla personale tensione espressiva: le linee si fanno così più fluide, la pennellata si emancipa dal minutissimo tocco diviso per farsi, nella sua densità, medium di un’energia interna alla materia, i cromatismi si evolvono fino a privilegiare dominanti tese ad esaltare l’aspetto evocativo del dato naturale.
Domenico Guerello, dopo una formazione di matrice realista con Tullio Salvatore Quinzio[175], si indirizza verso una pittura più franca, in cui l’interesse per la restituzione dell’atmosfera psicologica del ritratto lo indirizza all’utilizzo di una pennellata sfatta, con suggestioni post-scapigliate lombarde.
Complessi riferimenti culturali concorrono, in ogni caso, alla sua formazione, in cui si sommano il romanticismo tedesco di Friedrich, la tensione drammatica del post- impressionismo di Liebermann e più genericamente il simbolismo europeo. Intorno al 1915 i suoi interessi si indirizzano verso il simbolismo e tecnicamente verso il divisionismo che, successivamente (1919-20), si sommano e conferiscono al suo linguaggio figurativo un carattere di profonda interiorità.
In questo periodo poi, grazie alla conoscenza di artisti del calibro di Casorati e della cerchia “novecentista”, la sua visione si fa più ferma e tesa, a sottolineare le geometrie dello spazio, ma senza che venga meno l’evocazione serpeggiante del mistero delle cose quotidiane che unifica la sua breve opera.
Differente è il divisionismo intriso di componenti sociali e letterarie di Giuseppe Cominetti che dopo un esordio legato alla ritrattistica, con evidenti riferimenti agli scapigliati e a Carrière, si interessa dell’opera di Nomellini e Previati.
Oltre ad ascendenze liberty, nei suoi primi lavori denuncia chiaramente con la scelta di toni oscuri e inquietanti, legami con il decadentismo belga che ebbe tra i suoi protagonisti Delville.
Negli stessi anni, influenzato da Nomellini e Meunier, la tecnica divisa trova applicazione a particolari temi sociali legati al mondo del lavoro.
Procedendo nel tempo e tenendo come punto cruciale per la sua opera il 1907, Cominetti giunge ad una totale emancipazione dal clima decadente e definisce un suo personalissimo segno espressivo.
Questo è caratterizzato da uno schiarimento della tavolozza, dall’utilizzo di una pennellata filamentosa di derivazione previatiana, che però assume un carattere rinnovato nella pittura di Cominetti: si pone infatti, alternativamente, come elemento di accentuazione espressionistica, raccordo fra figura e spazio o come fattore di tensione dinamica all’interno della composizione.
Il suo trasferimento a Parigi sposta i suoi interessi verso la vita contemporanea (vita di città, danza, sport, ecc.), verso l’esperienza fauve che lo porta ad una drammatizzazione cromatica, e verso il Futurismo.
La vita contemporanea diviene protagonista indiscussa di molte delle sue opere eseguite tra il 1910 ed il 1915, in un agire pittorico caratterizzato da pennellate sfatte e dinamiche.
Si possono notare affinità con i futuristi nei soggetti che però vengono ancora trattati in chiave simbolista, come lettura modernista del tema della città fra esaltazione del vitalismo “Belle Époque” e le inquietudini fin-de-siècle.
Tali inquietudini evolveranno nella tensione espressiva, riversata nella serie di lavori realizzati per testimoniare la propria esperienza bellica.
Successivamente a questo periodo, la forte connotazione emotiva di tali opere andrà scemando per lasciare spazio ad un vitalismo naturalista in cui permangono, comunque, tratti simbolisti ben percepibili. La sua esperienza così variata e radicata negli accadimenti della cultura ligure, non riuscirà però a trovare nuove aperture.
L’esperienza di Cominetti e la sua tecnica pittorica mettono in risalto un progressivo allontanamento del divisionismo dalle sue basi naturaliste, in direzione di un processo di graduale astrazione.
Le esperienze divisioniste-simboliste che si sviluppano in Liguria nel secondo decennio del Novecento, potenzieranno questa dimensione astraente, pur con modalità differenti.
Cornelio Geranzani, in contatto con l’ambiente simbolista genovese sin dal 1902, inizia le sue sperimentazioni divisioniste solo dal 1907 e definisce il suo linguaggio più conosciuto solo tre anni dopo. Il suo peculiare utilizzo della tecnica puntinista in chiave antinaturalistica tende ad un’accentuazione simbolica dei suoi temi e dei suoi oggetti con una resa bidimensionale, piuttosto che a restituirne i dati ottico-percettivi. In questo agire, oltre a chiare radici secessioniste, si può individuare un’influenza dell’opera di Giacomo Balla, conosciuto nel 1910.
Negli anni successivi, queste esperienze si vanno progressivamente attenuando, fino a ritornare, negli anni venti, ad una figurazione più solida e con accenti scopertamente naturalistici.
Resterà comunque tipicamente suo l’orientamento a rendere le figure mediante volumetrie ben scandite e schemi compositivi fortemente linearizzati.
A procedimenti analogamente astraenti nell’ambito della scomposizione divisionista, giunge Sexto Canegallo, anch’egli influenzato dal divisionismo nomelliniano.
Dopo la formazione accademica, si volge al divisionismo, alternando parentesi realiste ad esperienze simboliste. L’incontro con Romolo Romani finisce però con l’indirizzare le sue scelte in senso più marcatamente simbolista.
Nelle sue opere l’esasperazione del dato lineare volto ad esprimere lo stato d’animo, finisce col trasformarsi in una struttura astraente sovrapposta al soggetto: tutto questo al fine di amplificare il dato simbolico dell’immagine.
L’accoppiamento divisionismo-simbolismo non esaurisce, però, l’ambito creativo oggetto della nostra breve analisi.
Le spinte simboliste trovano, infatti, particolari accentuazioni volte ad esaltare i dati più drammatici in una dimensione di derivazione espressionista.
Queste componenti, già incontrate considerando alcune opere di Merello e Cominetti, trovano riscontro anche nella produzione di Dante Mosè Conte artista significativo ma poco conosciuto.
Le sue creazioni, in particolare i ritratti, costruite con una materia drammatizzata nella densità degli impasti e mediante la scelta di decisi contrasti cromatici, si spingono, pur nel costante aggancio ad una tradizione post-impressionista, ad esiti espressionistici degni di nota.
E’ questo dunque il contesto artistico da cui origina la vicenda di Amighetti, ambiente da cui sicuramente fu influenzato ma, come vedremo, ebbe un influsso relativo sullo sviluppo della sua arte che prenderà come riferimento altri personaggi inseriti nel panorama nazionale ed internazionale
1.M.Calvesi,G.Ginsborg, 2000 a cui si rimanda per una accurata analisi storica e artistica del Novecento
[2] Valori Plastici, 1999
[3] Valori plastici fu una rivista di critica d’arte nata nel 1918 a Roma sotto la direzione del pittore e collezionista Mario Broglio. Nata per la diffusione delle idee estetiche della pittura metafisica e delle correnti d’avanguardia europea, fu edita dal 1918 al 1922 . A questa rivista collaborono numerosi artisti e altri videro le loro opere riprodotte: ecco perché convenzionalmente si parla di Gruppo di Valori Plastici anche se in realtà non esiste un manifesto.
La rivista volle essere il luogo di incontro tra la cultura pittorica locale e nazionale italiana, anche se con delle particolarità rispetto all’immediato passato, e la cultura internazionale.
Da Roma partì quindi il desiderio di porsi a confronto con la cultura pittorica internazionale. Tutto ciò avvenne sia con la pubblicazione di articoli i cui autori spesso erano gli stessi artisti, De Chirico, Savinio, Broglio, ecc., sia con la riproduzione di opere di artisti italiani e stranieri.
[4] In effetti, rispetto alle preoccupazioni esclusivamente e puristicamente “linguistiche” di cubisti e astrattisti, il Surrealismo segnò, con gli anni Venti, un notevole cambiamento di direzione, stimolato dall’ affascinante ricchezza di motivazioni anche psichiche di quella pittura metafisica che nel frattempo de Chirico aveva superato o trasformato e affiancato ad altre ricerche. Ciò significò, anche a livello mondiale, un dirottamento dalla linea canonica e tutta francese dell’ avanguardia, che prendeva le mosse dagli interessi puramente ottici dell’Impressionismo. Anche in questo, de Chirico fu un pioniere: nelle larghe campiture dei colori, nella segmentazione dei piani, guardò in modo originale agli innovatori parigini. Alla loro visione saldò la lezione dei tedeschi: il classicismo sospensivo e la mitolo di Boecklin, Klinger e di Marées, nonché le suggestioni che gli venivano dai maestri della tradizione, dal colorismo di Tiziano, Carpaccio, Dosso, e soprattutto dal Lucaismo prospettico dei “primitivi” toscani.
[5] E.Crispolti, 2001[6] Ibidem
[7] La Voce è stata una rivista italiana di cultura e politica. Fu fondata nel 1908 da Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini. Attraverso diverse fasi continuò le pubblicazioni fino al 1916. Nonostante la breve vita, è considerata una delle più importanti riviste culturali del Novecento: si caratterizzò per la spregiudicatezza delle battaglie culturali e di costume, oltre che per la vivace polemica sul conformismo della borghesia italiana d’inizio Novecento.
[8] R.Longhi, 1946
[9] M.Bontempelli, 1927, pp.21-22
[10] Soffici che aveva fatto conoscere agli amici fiorentini Cézanne, i cubisti, Apollinaire e che aveva espresso l’entusiasmo per Rimbaud, ripiega verso uno stile decoroso e foscoliano classico e in politica aderisce al fascismo. Nel 1925 firma il Manifesto degli intellettuali fascisti, nel 1938 firma il Manifesto della razza, prodromo delle leggi razziali fasciste. Soffici, più che un futurista vero e proprio, può essere considerato, come dice nel suo saggio Pier Vincenzo Mengaldo, “un Apollinaire italiano in formato ridotto”. Egli infatti era legato alle poetiche recenti per gusto di modernità stilistica come era d’uso a Parigi.
[11] La Ronda è stata una rivista letteraria mensile pubblicata a Roma dal 1919 al 1923, redatta da un gruppo di scrittori tra i quali V. Cardarelli, che la diresse dal 1920, R. Bacchellli, A. Baldini, B. Barilli, E. Cecchi, L. Montano, A.E. Saffi, assai diversi fra loro per temperamento, ma concordi circa la necessità di un ritorno, dopo l’esperienza della Voce da cui essi stessi provenivano, alla tradizione classica. Se La voce, come altri movimenti del primo Novecento, aveva puntato sul soggettivismo vitalistico, sull’impressionismo e sul frammentismo lirico, gli scrittori della Ronda mirarono a restaurare i valori della letteratura intesa come stile. La Ronda ebbe tra i suoi collaboratori: C. Carrà, A. Gargiulo, N. Savarese, A. Savinio, A. Soffici, A. Tilgher.
[12] L’influenza di Margherita Sarfatti sull’arte e sulla cultura italiana è incomparabile a quella di chiunque altro in questo momento. Da quando sta con Mussolini il suo ascendente sulle carriere degli artisti è aumentato. Il rapporto di superiorità che riesce a esercitare su Benito (anche rispetto alle altre donne) e il favore che ne ha in cambio dettano una svolta con cui lei s’impone sulla scena culturale e politica.
È il momento giusto per diventare non solo scrittrice, ma il primo critico d’arte donna italiano, in anticipo su quelle che saranno le tendenze della seconda metà del secolo.
La Sarfatti è il “curatore” ante litteram, frequenta gli atelier, sostiene economicamente gli artisti, valuta, discute e ne fa comprare le opere, quando non le acquista per sé. Raggruppa gli artisti in base a una comunanza di poetica e di visione nell’arte e nella vita. Novecento per lei non è un semplice ritorno al passato o all’ordine; è la rinascita di un’espressione nuova. Più delle parole sono tele, sculture e ritratti a restituire la verità del suo rapporto con il gruppo, un movimento pensato e sostenuto. (R.Ferrario, 2015, pp.237-238)
[13] Su Sironi si veda il recente ed particolareggiato studio di E.Pontiggia, 2015
[14] S.Barron,S.Eckmann, 2015
[15] M.Fagiolo dell’Arco, 1991
[16] S.Cecchini, 2007
[17] M.Sarfatti, 1930
[18] R.Ferrario, 2015 a cui si rimanda per la più recente e completa biografia della Sarfatti
[19] E.Pontiggia,N.Colombo, 2001, p.174
[20] A.Bucci, 1946, p.184
[21] “Il Popolo d’Italia” è un importante quotidiano politico italiano fondato nel 1914 da Benito Mussolini; a tale giornale collabora, sin dai primordi, Manlio Morgagni, a cui viene affidata la direzione amministrativa; nel 1919 l’incarico passa ad Arnaldo Mussolini, mentre Morgagni si dedica alla raccolta pubblicitaria. Dal 1922, quando Benito Mussolini diviene Presidente del Consiglio, il fratello Arnaldo eredita la direzione del quotidiano che da quel momento diviene il principale organo comunicativo del Partito Nazionale Fascista.
La “Rivista Illustrata” (1923-1938) nasce come allegato. E’ da sottolineare che gli scritti presenti nella rivista abbracciano un arco cronologico ampio spaziando dall’antico al contemporaneo. Ai recenti sviluppi dell’arte, intesa in tutte le sue manifestazioni, viene dato ampio rilievo: si ritrovano articoli su mostre italiane ed estere, sul gruppo Novecento ed i suoi componenti, mentre pezzi su Biennali, Triennali e Quadriennali danno una visione d’insieme del panorama artistico presente in Italia durante il Ventennio.
[22] E.Pontiggia, 1999, p.40
[23] R.Bossaglia, 1979, p.10
[24]Per una esaustivo riferimento biografico si veda: L.Cavallo, 2011
[25] Curzio Malaparte (pseudonimo di Kurt Erich Suckert, 1898-1957) di Prato, appartenente al “900” e passato poi al “Selvaggio”, coniò la parola Strapaese per definire coloro che aderivano al “Selvaggio” (1924-43), periodico nato a Colle Val d’Elsa come interprete dello squadrismo locale e dal 1926 trasferitosi a Firenze sotto la direzione di Mino Maccari (1898) che lo arricchirà di vignette satiriche sue, di disegni di Morandi, Carrà, Bartolini, Rossi, De Pisis, Soffici.
Strapaese pertanto non è solo una corrente pittorico-letteraria antinovecentista, né tanto meno solo un esperimento di fronda interna al fascismo. Strapaese è prima di tutto un territorio: “Tra il Bisenzio l’Arno l’Ombrone / e la Val d’Elsa è il nostro regno” canta Curzio Malaparte. È questa terra toscana, prima che un’ideologia, a inveire contro l’istituzionalizzazione e la burocratizzazione dell’Italia dopo la marcia su Roma. Strapaese si assunse il compito di sfottere tutti gli accomodanti, i tiepidi, gli amanti dei compromessi e delle transazioni. In una parola: i liberali. Ardengo Soffici, sul Selvaggio del 12 ottobre 1924, organo ufficiale di Strapaese, scrive: “Liberalismo: lasciare a tutti la libertà di sopprimere la nostra”. Strapaese è l’esaltazione del buon senso e della sanità domestica e rurale. Strapaese, scrive Mino Maccari, è stato fatto apposta per difendere a spada tratta il carattere paesano della gente italiana. È l’esaltazione di un Italia “nostrana” e genuina. È un appello a riscoprire le radici della nostra razza e i segreti della nostra tradizione.
(L.Barbirati, 2014)
[26] R.Bossaglia, 1979, p.22
[27] Raffaello Franchi (Firenze 1899-1949) aderisce al Futurismo tramite “Lacerba”, inviando le sue prime poesie a Papini e Palazzeschi. Nel 1916 pubblica la sua prima raccolta di prose liriche “Ruscellante” (Fantasia) a cui fa seguito nel 1917 l’antologia poetica “Incantamento”. Collabora a numerose riviste fra cui “La Raccolta”, “La Diana”, “L’Italia futurista” e nel dopoguerra si avvicina alle posizioni politiche del partito futurista collaborando a “Roma futurista” e a “L’Assalto” (Firenze, 1919), organo del fascio futurista fiorentino. Successivamente è nel gruppo dei futuristi fiorentini per poi, nel 1924, abbandonare il movimento e volgersi verso esperienze narrative riconducibili al clima di «Solaria» di cui diviene assiduo collaboratore.
Nel 1942 pubblica “Istmo. Ritratti letterari”, dove rievoca la sua esperienza futurista.
Data l’ampia esperienza maturata sul campo militante delle arti e della letteratura, fu punto di riferimento per l’avvio di “Solaria” e assiduo collaboratore della “Fiera”, poi “Italia letteraria”, per la quale fu referente per le cronache culturali e artistiche fiorentine, spaziando dalla letteratura alle arti drammatiche e a quelle figurative. Su Franchi si veda il circostanziato profilo in R.Ricorda, 1988, pp-7-60
[28] R.Franchi, in La Fiera letteraria, 19 giugno 1927, p. 3.
[29] Ecco una sintetica rassegna delle mostre tenute alla galleria Bellenghi; nell’aprile 1928: Enrico Sacchetti, Baldwin e John Erik Smith; nel maggio: Alberto Magnelli, F.A. Weinzheimer; nel giugno: Elisabetta Brewster-Hildebrandt, Piero Bugiani e Rodolfo Bernardi; nell’autunno una esposizione integralmente votata al gruppo toscano: Baccio M. Bacci, Ludovico Tommasi, Franco Dani, Guido Peyron, Enrico Pozzi, Giovanni Colacicchi; in seguito: Giovanni Costetti, Marino Marini, Romeo Costetti, Amighetto Amighetti, Luigi Luparini; nel dicembre una interessante mostra di: Pietro Bugiani, Alfiero Cappellini, Carlo Carrà, Arturo Tosi, Mario Sironi, Achille Funi, Alberto Salietti e Guido Marussig; all’inizio del 1929, prima: Ennio e Gino Pozzi, Raffaele de Grada, Ruggero Michaelles; in seguito: Irena Baruck e Rodolfo Bernardi (R.Franchi, Mostre fiorentine in La Fiera letteraria, n. 1, aprile 1928, p. 4.)
Ancora Franchi: “Il giornale Selvaggio, nato a Colle Val d’Elsa a cura di Mino Maccari come espressione dell’estremismo fascista nel campo politico, or che è sceso a Firenze e ha preso veste d’arte, è diventato il foglio dove l’antico gruppo lacerbiano si prova a dimostrare di esser l’unico modo di attività, di polemica e di creazione ancora vitale.
“Per il Selvaggio Firenze, città antiselvatica e quasi tentacolare, altro non sarebbe che la peccaminosa provincia accanto alla capitale Poggio a Caiano, il paese di monsignor Ardengo Soffici.
Ma da Poggio, o Strapaese come l’hanno ribattezzato, i selvaggi si studiano, con lodevole intenzione, di colonizzare e purificare Fiorenza dove, ottima testimonianza della loro intenzione, tra pochi giorni apriranno una saletta destinata ad accogliere successivamente interessanti mostre di Soffici e di Rosai, di Lega e di Carrà, di Morandi, di Galante e di altri ancora” (R.Franchi, Le mostre del Selvaggio, in La Fiera letteraria, 23 gennaio 1927, p. 3) , ed è proprio in questo clima culturale che matura Amighetti durante i suoi lunghi soggiorni a Poggio a Caiano. Per una visione complessiva si veda: P.Senna, 2008
[30] E.Pontiggia, 2003 , p.70
[31] “Sarà un altro critico donna, Palma Lucarelli, entrata nella sopraintendenza ai tempi del fascismo con Giuseppe Bottai, a cogliere il fraintendimento nella definizione di Novecento, quando ne compila la voce per la Treccani nel 1934: “Il titolo sembrò presuntuoso, perché parve ad alcuno che volesse ipotecare in antiicipo tutto il secolo” scrive la Bucarelli, che ha ancora vivo il ricordo dei drappi neri nazifascisti alle pareti della Galleria nazionale d’Arte moderna. “Esso voleva invece essere, in quei giorni grigi del dopoguerra, un atto di fede e una parola d’ordine.” (R. Ferrario, 2015, p.223)
[32] M.Sarfatti, 1930, p.123
[33] Lo studio di Margherita è sempre un punto di ritrovo aggiornato su quanto accade nell’arte. “Ricordo, una sera del 1920” scrive suo figlio Amedeo. “A casa mia si erano radunati, come tutti i mercoledì, intorno ai miei genitori, i fedeli amici che animavano quelle riunioni: pittori come Sironi, Tosi, Russolo, Funi, Carrà, Pietro Marussig, Ugo Piatti, Biasi, Carpi, lo scultore Arturo Martini; e scrittori come Ada Negri, F.T. Marinetti, Massimo Bontempelli, e altri.” Gli altri sono Adolfo Wildt, che più tardi, a Roma, scolpisce il busto di Margherita nel marmo, de Chirico, Savinio, Mafai, Piacentini, Aschieri; e poi Bottai, Federzoni, Italo Balbo, Alfredo Panzini, il vecchio amico Guglielmo Marconi, oltre agli stranieri di passaggio. (R.Ferrario, 2016, pp.222-223)
[34] R.Ferrario, 2016
[35] F.Caroli,A.Masoero, 2001
[36] E.Pontiggia, 2015
[37] Su “Bottega di Poesia” si veda A.Madesani, 2016, pp.89-97
[38] M.Sarfatti, 1925, pp.126-128
[39] E.Pontiggia, 1999, p.41
[40] Venne fondata a Milano nel 1917 dal collezionista Lino Pesaro, negli ambienti del Palazzo Poldi Pezzoli in Via Manzoni. Per approfondimenti si veda A.Madesani, 2016, pp.33-77
[41] R.Bossaglia, 1979, p.8
[42] E.Pontiggia, 2015, p.127; sulla vicenda Pesaro si veda: A.Madesani, 2016, p.55-70
[43] I pittori chiamati da Lino Pesaro appartengono a “un’avanguardia moderata”, Funi e Sironi hanno un passato futurista, Bucci e Marussig conoscono bene la pittura francese e condividono un’ansia visionaria.
Sono usciti dalle trincee con il corpo illeso (a parte Dudreville, riformato, e Malerba, che non va alla guerra), e con lo spirito mutato. Sono diversi ma desiderano superare il trauma della tragedia appena vissuta.
Vogliono rinascere, tornare al mondo con l’arte di belle forme e colori puri. Pesaro, gallerista capace e intraprendente, propone loro un accordo: una vetrina alla settimana a turno, in cui esporre un quadro, e l’impegno a sostenere le spese per mostre e pubblicazioni; dal canto loro, i pittori dovranno esporre con il gruppo e affidarsi a Pesaro per la vendita delle opere.
[44] L.Pesaro, 1931
[45] E.Pontiggia, 2015, p.128
[46] F.Ragazzi, 2003, p.235
[47] Gli anni Venti […] sono gli anni delle vaste composizioni, dei quadri celebrativi. La materia si fa screziata, imbevuta di luce rugiadosa, spesso macerata. Il fondo letterario è evidente, ma è anche evidente uno psicologismo persino esasperato (specie nei frequenti autoritratti). Lo spettro stilistico si ampia da El Greco a Courbet, da Correggio a Cézanne; e via via la pennellata si fa inquieta, sinuosa, persino serpeggiante. È un connotato da interpretare in chiave simbolica, come segno di una aristocratica fierezza d’animo che viene corrosa lentamente dal dubbio, dall’incertezza. […] la Sarfatti nel 1930 scrive significativamente: “Casorati, Carrà e Carena sono piemontesi: nature, dunque,meno decisamente e spontaneamente plastiche, uomini molto colti, piuttosto cerebrali, mutevoli e aperti a tutte le tendenze». In verità, Carena ci appare come un insoddisfatto. I suoi quadroni forzano spesso il sentimento verso la retorica, lasciando poco spazio alla pittura come “confessione” o come “stato d’animo”: si è attratti troppo dall’effetto e sfuggono le componenti più finemente intellettuali e psicologiche dell’artista.[…] Insomma, Carena sente il fascino della ‘grande pittura’ del passato come forse nessun altro; ma stenta a trovare il filo giusto di una espressività che coincida con la sua natura intellettuale e sensitiva” (P.Rizzi, 1985)
[48] E.Pontiggia, 2010 ,p.39
[49] Antonio Maraini scultore nato a Roma, trasferitosi a Firenze nel 1912, si allontana dopo pochi anni in seguito allo scoppio del conflitto mondiale, costretto dalla sua attività di redattore capo cronaca artistica per “La Tribuna”, giornale in cui conduce una riflessione sull’arte moderna in continua evoluzione. Tornato a Firenze trascorre un periodo felice, completando la sua formazione intellettuale nei caffè culturali della città e nella villa di Ojetti.
[50] Il 1929 fu un anno di mostre importanti: alla Guarino Gallery di New York espone Depero. A Milano, alla Galleria Pesaro espone Magnelli; alla Permanente ‘Mostra del Novecento italiano’ a cura di Margherita Sarfatti, con 116 artisti; alla galleria Milano la mostra ‘Sette artisti moderni: Carrà, Funi, Marussig, Salietti, Sironi, Tosi e Wildt’. Alla Galérie l’Epoque di Bruxelles personale di De Chirico. A Parigi la Galérie Zak impagina la mostra ‘Un groupe d’Italiens de Paris’ e la Galérie Bucher una personale di Campigli. Alla Gallerie Moos di Ginevra ’21 Artistes du Novecento italien’. A Roma un folto gruppo di opere della Raphaël tra le ‘Otto pittrici e scultrici romane’ a ‘La camerata degli artisti’. Alla Galleria Pesaro di Milano ‘Trentatrè Futuristi’. A Londra prima mostra inglese di Giorgio De Chirico. Alla 28a mostra del Carnegie Institute di Pittsburg espongono Baccio e Morandi. Al Salon d’Automne di Parigi, retrospettiva di Medardo Rosso; alla Galérie Bonaparte, Tozzi cura la ‘Exposition d’art italien moderne’; alla Galérie 23, Severini cura la rassegna ‘Les peintres futuristes italiens’, 17 anni dopo la prima uscita dei Futuristi in Francia. Prima personale di Fausto Pirandello alla Galérie Vildrac; De Chirico pubblica ‘Hebdomeros’; Manzù e Marino Marini lavorano nella capitale francese. A Torino ‘Mostra personale del pittore futurista Fillia’ e ‘Prima esposizione sindacale fascista’ coi Futuristi (esce il ‘Manifesto degli aeropittori futuristi’) e il gruppo dei Sei di Torino, orientato verso la cultura postimpressionista, e in opposizione a Novecento, presentato da Edoardo Persico. A Roma personale di Balla e ampia mostra del Futurismo al Palazzo delle Esposizioni nel contesto della ‘Seconda mostra regionale del Sindacato laziale fascista di Belle Arti’. Alla XX Esposizione dell’Opera Bevilacqua la Masa a Ca’ Pesaro espongono tra gli altri Santomaso e Afro Basaldella che si sposta a Roma dove conosce Mafai, Scipione e Cagli. Inizia l’attività plastica italiana di Fontana che aveva già realizzato figure in Argentina alla metà degli anni ’20.
[51] En janvier 1928, les peintres Mario Tozzi et René Paresce organisèrent à la Comédie des Champs-Elysées la première exposition des Italiens de Paris (Les artistes italiens de Paris, 3 février – 2 mars 1928), qui réunit, outre leurs propres toiles, celles de Campigli, De Pisis, Severini, des sculptures de Giacometti, etc. Cette exposition participa en réalité d’une stratégie plus large, et le vernissage, en présence de l’Ambassadeur d’Italie et du Directeur des Beaux-Arts, Paul Léon, eut toutes les apparence d’un événement diplomatique. Dans La Semaine de Paris (13 février 1928), Tozzi exposa les attentes de l’Italie : « Que sait-on en France de l’art de l’Italie nouvelle ? Que sait-on des énergies qui y jaillissent plus nombreuses chaque jour ? Rien ou presque rien. La légende suivant laquelle il n’existe pas d’art moderne en Italie est profondément enracinée ici. Nous nous sommes donné pour tâche de la discréditer (….). Nous sommes désireux de faire savoir qu’en ce moment l’art italien, lui aussi, est en marche. »
L’offensive que mena à partir de cette date ce groupe d’artistes actifs dans la capitale française, bientôt rejoints par De Chirico, se développa selon deux axes.
Dans un avant-propos à une exposition, L’art italien moderne, inaugurée à la galerie Bonaparte à Paris le 30 décembre 1929, Tozzi expliquait ainsi que si le futurisme n’était représenté que par Sant’ Elia et Prampolini, c’était parce que le réveil du sentiment national provoqué par la victoire et la révolution fasciste avait rendu « stérile » ce mouvement qui « échappait complètement à la tradition ethnique ». A l’inverse, les membres du Novecento, tels Sironi, Funi, Marussig et Borra, se voyaient reprocher leur « traditionalisme » : avec Severini, De Chirico, De Pisis, Campigli et Tozzi lui-même, l’art italien était revenu à sa véritable tradition qui allait de Giotto à Uccello et Masaccio, mais « avec un esprit hautement dynamique et moderne ». Cette position rappelle celle de Carrà. Mais à la différence de ce dernier, les Italiens de Paris entendent affirmer les valeurs de la culture italienne à Paris même, c’est-à-dire sur la scène européenne. En accord sur ce point avec la nouvelle politique internationale de Mussolini, ils bénéficièrent du soutien des autorités fascistes. Mario Tozzi, qui était membre du Comitè France-Italie, joua en fait un rôle d’intermédiaire entre l’appareil fasciste et la scène artistique parisienne.
[52] M. Tozzi, 1929 ,p.6
[53] A.Maraini, 1926, p.29
[54] R.Ferrario, 2016, p.216
[55] B.Riccio, 1929
[56] M.Sarfatti, 1922
[57] Certamente, è da questa esposizione, che ha origine quella etichetta politica, che si andò sempre più accentuando e dietro la quale si rifugiarono molti, non per sentimento, ma per inqualificabile opportunismo. Ciò è stato un male, perché l’arte non è politica. La politica potrà anche essere un’arte, ma l’arte sostantivo, quella che si scrive colla A maiuscola, si libra per cieli tersi e non rannuvolati dalle umane passioni, che uccidono spesso il sentimento. (L.Pesaro, 1931)
[58] R.Bossaglia, 1979, p.90. Estratto dal bando (lettera d’invito agli artisti) per la partecipazione alla I Mostra di Novecento
[59] Ibidem, p.22
[60] L.Pesaro 1931
[61] A poco più di un anno dall’ esordio milanese, nella primavera del 1924, Novecento gioca la sua partita a Venezia.
Già durante l’edizione precedente il gruppo aveva eletto a quartier generale il caffè Florian. La parola d’ordine era: nessuna confidenza ai vecchi maestri, agli accademici, ai “passatisti defunti”. Non a caso il movimento vuole essere “un atto di orgoglio”, raccontare un clima, riferirsi a una tendenza europea. Quale vetrina migliore in cui mostrarsi di quella dei giardini della Biennale? È questa la prima vera uscita pubblica del gruppo quasi appena nato. E anche l’unica. (R.Ferraio, 2015,p.239-240)
[62] R.Ferrario, 2015, p.241
[63] R.Bossaglia, 1979, P.35
[64] E.Pontiggia, 2003
[65] R.Bossaglia, 1979, p.33
[66] Ibidem
[67] Ibidem, p.55
[68] E.Pontiggia, 2003 , pp.159-175.
[69] F.R.Morelli, 2000 a cui si rimanda per un’attenta analisi della figura di Oppo
[70] E.Pontiggia, 2006
[71] Fondata a Roma da Massimo Bontempelli e Curzio Malaparte nel 1926, “900. Cahiers d’Italie et d’Europe” si propose subito come una rivista moderna e internazionale. Proprio in questa ottica la lingua di pubblicazione dei primi quattro numeri fu il francese. Il numero 4 dell’estate 1927 uscì in francese e in italiano, mentre nei successivi la rivista verrà pubblicata esclusivamente in italiano, per concludere le pubblicazioni nel giugno del 1929.
[72] S.Cecchini, 2007
[73] F.Benzi, 2008
[74] Dopo aver frequentato la Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Pavia con il fratello Leone, dopo l’improvvisa morte di questi, Filippo Tommaso Marinetti viene mandato dal padre a studiare a Genova dove alloggia presso l’Hotel de Ville, nel Palazzo Serra Gerace in Piazza Caricamento. Anni dopo, ricordando quel periodo, scriverà: “dalle finestre” di quell’albergo “bevevo la fluttuante e intricata visione di funi vele nuvole transatlantici che mi incitavano a poetare più che ad approfondire il diritto romano. Nacquero sul Molo una volta chiamato Giano, i miei primi due libri La conquista delle stelle e Distruzione. In un altro mio poema cantai il casupulame ormai distrutto dell’antico porto che una volta mescolava le sue terrazze con i velieri le gru e il popolo delle barche”. F.Ragazzi, 2006, p.51
[75] F.T.Marinetti, 1909
[76] Il Manifesto del Futurismo nasceva, inizialmente, come reazione agli ideali borghesi dell’Ottocento (un esempio è il decadentismo di D’Annunzio). Secondo i Futuristi, infatti, il limite della letteratura italiana dell’Ottocento era la mancanza di contenuti forti e il suo passivo modo di pensare detto “laissez fair”, letteralmente “lasciate fare”. Tutto questo venne combattuto dai Futuristi: nella loro reazione esaltarono soprattutto l’uso dell’eccesso.
(vedi art. 3 del Manifesto del Futurismo ).
In questo periodo in cui l’industria andava crescendo, in Europa, i Futuristi sentivano il bisogno di far vedere a tutti che l’Italia era presente ed che aveva il potere di prendere parte in questa nuova esperienza. Erano convinti, inoltre, che l’Italia potesse concepire e apprezzare l’essenza del progresso attraverso i suoi simboli: l’automobile e la velocità.
La principale intenzione dei Futuristi non era quella di sovrastare la letteratura con il progresso, ma di far sì che questa lo assorbisse nella sua evoluzione. I Futuristi reagivano alla forza potenzialmente sovrastante del progresso, ma allo stesso tempo ne esaltavano l’importanza, dimostrando così che era l’Uomo ad usare la velocità, e non il contrario.
La poesia doveva aiutare l’uomo ad essere parte di tutto questo.
Si creò così un nuovo e rivoluzionario concetto di bellezza: la violenza diventò il “bello”. Un opera che non abbia un carattere violento e aggressivo non potrà mai piacere, non diventerà mai un capolavoro.
Per loro, questo era un momento speciale nella storia: stavano cambiando il mondo e non potevano guardare al passato se davvero volevano rivoluzionare tutto.
La guerra venne definita quasi come una necessità per gli uomini. La definirono come “l’unica igiene del mondo” ed il modo più efficace per favorire l’idealismo. Molti pensano che da queste ideologie prettamente italiane siano derivati molti dei movimenti di massa nati non solo in Italia, ma anche in Germania e in Russia. Molti dei fatti importanti del XX secolo avvennero molto dopo la pubblicazione di questo Manifesto. A quel tempo, cose simili non potevano neanche essere immaginate.
[77] G.Brusa Zappellini, 1993
[78] R.Mordenti, 2011
[79] G.Lista,A.Masoero, 2009
[80] L.De Maria, 1973
[81] W.Pedullà, 2010
[82] Jugendstil è il nome che presero in Germania le espressioni artistiche dell’Art Nouveau, dal nome di una rivista di Monaco (Jugend, “Giovinezza”, fondata nel 1886) che contribuì a diffondere il nuovo linguaggio artistico, soprattutto nel campo della grafica e delle arti applicate. Il termine venne usato per la prima volta nel 1899 sulla rivista “Insel”.
[83] E.Crispolti, 2001
[84] E.Crispolti, 1985
[85] Non si può non ricordare l’esperienza del cosiddetto “secondo futurismo’. Quello che porterà Filippo Tomaso Marinetti e i “Poeti, Artisti Musicisti e Letterati Futuristi di tutta Italia” a Chiavari in una memorabile giornata del novembre 1931 celebrata fra “aeropranzi”, una “Grande serata teatrale” al Pro Chiavari. una eccezionale mostra d’arte nel nuovissimo Palazzo delle Esposizioni dove tra gli altri esposero: Alf Gaudenzi, Diulgheroff, Fillia, Gambetti, Munari, Picollo, Oriani, Prampolini, Verzetti, Farfa, Tullio d’Albissola. Per l’occasione si stampòil numero unico “Chiavari Anno X” in cui Ettore Lanzarotto redasse l’editoriale e Attilio Podestà scrisse “Panorama artistico chiavarese” e “Pittori a Chiavari”, cioè di Salietti, Tosi, Funi, Dudreville.
[86] F.Ragazzi, 1998 a cui si rimanda per il più esaustivo studio sul movimento futurista in Liguria.
[87] C.De Benedetti, 1976
[88] F.Ragazzi, 2006
[89] E.Crispolti, 1987 e in particolate “i luoghi del futurismo”, pp.303-310
[90] P.Thea, 1980
[91] AA.VV., 2004
[92] N.Colombo,E.Pontiggia, 2001
[93] F.Dioli, 2014, p.74 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[94] Ibidem, p.130 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[95] Ibidem, p.64 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[96] Ibidem, p. 56 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[97] Ibidem, p.177 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[98] G.Costa,F.Dioli, 2006, pp.233-238
[99] E.Bertonati, 1978
[100] ibidem
[101] Ibidem
[102] F.Dioli, 2014, p.218 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[103] Il giudizio di Arturo Martini pronunciato di fronte ad un paesaggio ligure “ una collina d’un verde un po’ cupo, con tanti dadetti di case” esposto alla Promotrice ligure del 1924 viene riportato da: A.Podestà, 1964
[104] F.Ragazzi, 2007
[105] Il Novecento, 1929, p.18
[106] R.Campana, 2007
[107] A.Grande,A.Podestà, 1965
[108] R.Ferrario, 2015, p.243
[109] A.Podestà, 1931
[110] M.Sarfatti, 1930
[111] F.Dioli, 2014, p.62 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[112] Ibidem, p.98 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[113] F.Ragazzi, 2007, p.14
[114] F.Ragazzi, 1995, pp.21-26
[115] C.Carrà, 1943, p.358
[116] È tra i pittori del primo gruppo del Novecento Italiano Arturo Tosi, buon pollone del grande albero della pittura lombarda; in linea retta discende da tutti i migliori nostri dell’Ottocento; dal Piccio al Ranzoni e ad Emilio Gola, non vi è nessun maestro dal quale il Tosi non abbia saputo imparare. Ha ereditato da tutti, è parente di tutti, ma non è uguale a nessuno; la sua fisionomia caratteristica è viva, ben definita e chiara. Giunto sulla soglia della maturità, dimostra il possesso dei mezzi e dell’esperienza artistica, non già con l’indifferente scaltrezza degli arrivati, ma nella trepida commozione di un’adolescenza morale, più consapevole, non meno fresca e commovente dell’adolescenza fisica.
I suoi paesaggi, le marine liguri e le vedute dei laghi, sono pagine manzoniane di pacata tenerezza e di plastica serrata, incorporea come il soffio, solida come la terra. E i cieli vaporano ceruli o grigi, adorabili e sereni come il volto della necessità su quelle robuste chine di mezza montagna, non cosi aspre da escluderne l’uomo, abbastanza vicine a Dio perché egli vi si senta più solo e più lieve. (M.Sarfatti, 1930, p. 124)
[117] C.Gian Ferrari,F.Ragazzi, 1995
[118] F.Ragazzi, 1995, p.24
[119] Ibidem
[120] M.Labò, 1927
[121] A.Podestà, 1931
[122] A.Grande, 1929
[123] F.Dioli, 2014, p.95 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[124] Ibidem, p.224 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[125] Ibidem, p.195 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[126] Ibidem, p.36 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[127] Ibidem, p.80 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[128] Ibidem, p.111 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[129] Ibidem, p.125 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[130] Ibidem, p.141 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[131] Ibidem, p.174 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[132] Ibidem, p.194 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[133] Ibidem, p.217 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[134] Ibidem, p.250 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[135] Ibidem, p.199 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[136] Ibidem, p.73 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[137] Ibidem, p.202 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[138] Ibidem, p.88 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[139] Ibidem, p.120 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[140] Ibidem, p.117 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[141] Ibidem, p.172 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[142] Ibidem, p.139 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[143] Ibidem, p.29 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[144] Ibidem, p.230 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[145] Ibidem, p.229 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[146] Ibidem, p.13 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[147] Ibidem, p.67 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[148] R.Bossaglia, 1979, p.144
[149] “Sei di Torino” nome con cui sono noti i pittori che, formatisi nell’ambito dello studio di Casorati, esposero tra il 1929 e il 1931 in gruppo, manifestando pur nella diversità di ricerca una comune apertura alla cultura europea. Il gruppo, che fu sostenuto da Edoardo Persico (che diverrà poi uno dei maggiori critici d’arte degli anni trenta), Lionello Venturi e Riccardo Gualino, comprendeva: Jessie Boswell, Gigi Chessa, Nicola Galante, Carlo Levi, Francesco Menzio, Enrico Paulucci, che fu il più attivo del gruppo.
Il gruppo, che avrà vita breve cessando la sua attività nel 1935, dopo la prima mostra a Torino alla Galleria Guglielmi, organizzò una serie di mostre in Italia ed all’estero, a Genova, Milano, Roma, Londra, Parigi.
Gli artisti di questa corrente si distanziarono dalla politica culturale imposta dal regime fascista e dal recupero della tradizione nazionale del Novecento, concentrandosi invece sulla continuità dell’arte moderna europea nel panorama italiano.
Trassero ispirazione da Manet e Dufy, dai Fauves francesi e dagli impressionisti tedeschi, considerando tuttavia gli esempi italiani della pittura ottocentesca e di Modigliani.
La pittura dei Sei di Torino si espresse con delicati rapporti segnici e cromatici, in schemi compositivi semplificati, improntati dall’espressione di un sentimento antieroico.
[150] F.Dioli, 2014, p.45 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[151] G.Bruno, 1993, p.14
[152] F.Ragazzi, 1995, pp.27-36 a cui si debbono i più attenti e sistematici studi sul Novecento in Liguria
[153] A.Angiolini in Il Lavoro 1930
[154] G.Giubbini,F.Ragazzi, 1997
[155] F.Ragazzi, 1993
[156] L.Dudreville, 1919
[157] Se ne conoscono almeno sette edizioni 1921 (la sua opera prima chiavarese, appunto), del 1923, del 1924, del 1926, del 1929, del 1930 e del 1934.
[158] R.De Grada, 1964
[159] E.Lanzarotto, 1972
[160] F.Ragazzi, 1993
[161] F.Dioli, 2014, pp.118-189 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[162] Ibidem, 2014, p.219 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[163] Ibidem, 2014, p.242 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[164] Ibidem, 2014, pp.170-171 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[165] A.Scotti, 1986
[166] F.Dioli, 2009, pp.259-266, 362-365
[167] F.Ragazzi, 2005
[168] F.Dioli, 2014, p.83 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[169] Ibidem, 2014, p.33 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[170] Ibidem, 2014, p.191 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[171] Ibidem, 2014, p.217 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[172] Ibidem, 2014, p.245 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[173] Ibidem, 2014, p.94 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[174] Ibidem, 2014, p.75 a cui si rimanda per la più recente bibliografia
[175] Ibidem, 2014, p.208 a cui si rimanda per la più recente bibliografia