Genova 1896 – Milano 1981

Eugenio Montale poeta e pittore ligure

Eugenio Montale per dipingere scelse materiali casuali: fondi di caffè, dentifricio, rosso per labbra. invece delle tele, o di ricercati fogli Fabriano, prediligeva cartone ondulato, taccuini di modesta qualità, da cartoleria occasionale: tutto il contrario del “nobile” armamentario dell’artista.
Si lanciò anche in universi’ grafici dalle tecniche raffinate: l’incisione, il monotipo, l’acquaforte.

Dalla finestra, 1939
Oltre alla dedica a Sebastiano Timpanaro, la scritta rovesciata nella stampa svela “La mia prila acquaforte”


Sempre e comunque, ostentò materiali di poco pregio incurante della sorte futura delle proprie opere, non
si preoccupò che i suoi “viaggi d’espressione figurativa” durassero.
I suoi gessetti si mostrano evanescenti, sembrano sul punto di “andarsene”, a tratti fanno trasalire di timore giacché danno l’impressione di sfarinarsi con lo sguardo.
Per tutta la vita Montale coltivò, a lato del lavoro letterario, una fortissima passione per la pittura, una pittura sommessa, dominata da silenzi virtuali e reali; pochi ne erano a conoscenza: gli amici, per lo più, che ambivano ricevere in dono una di quelle improprie opere di poesia: un pastello con una marina tremula, una piccola incisione raffigurante il prediletto galletto di  marzo con la sua cresta discola, l’esile striscia di un orizzonte quasi lunare.

Galletto di  marzo

Dipinse in maniera esclusiva, se si vuole estraneo ai gusto passabilmente di moda.
Per questo è: praticamente impossibile raccostarlo ad un altro pittore del suo tempo.
Il “dipingere” di Montale era ed e un’altra cosa: in realtà più che “ritrarre” il mondo, le sue tracce “pittoriche” sono semplicemente un altro modo di guardare la realtà.
Se la critica letteraria accettasse elementi estranei all’esclusiva parola, gli universi pitturati da Montale, e racchiusi nell’esigua superficie di un “ondulato”, potrebbero diventare specchiate note a pie di pagina delle medesime sue poesie, poiché i quadretti non suonano soltanto quale una esemplare curiosità di lato, un “amusement” delle ore d’ozio.
Che Montale si dilettasse col disegno, fin dagli anni più antichi, verso il 1950, molti suoi amici ne erano al corrente.
La forma più gioviale e immediata erano delle esili caricature a penna nelle sue lettere, aggiunte, forse, per “abbellire”.

Accanto alla “sismografica“ grafia fiorivano sui fogli sinopie del lavoro artistico futuro, allusivi disegnetti: strepitoso quello in cui Montale prefigurava il proprio funerale, un racconto cum figuris, infilato dentro a una lettera inviata alla sua amica Lucia Rodocanachi moglie de noto pittore Paolo Stamaty.
L’impeto e la smania pittorica lo prese al tempo in cui, abbandonata Genova, si era trasferito a Firenze.
Forse il clima vivace della città toscana, la presenza di importanti pittori, insomma la tensione creativa diffusa, lo “scoprirono”, fors’anche a se stesso.
Eugenio Montale ebbe il suo primo collezionista: Sebastiano Timpanaro.
“[…] Fanatico dell’arte e più ancora degli artisti, Sebastiano Timpanaro, non avendo mezzi per farsi una collezione di quadri ripiegò sulle stampe.
Ne possedeva a migliaia. Il giorno che gli parve di scoprire in me una certa attitudine al disegno mi forni di lastre di rame, di bulini, di bottigliette di vernice; volle assistere personalmente alle morsure dei miei lavoretti, che andarono a impinguare la sua raccolta.
Credo che possedesse (l’infelice) qualche mio unicum
Renderà poco ai suoi eredi. Amo gli artisti, li sopporto, li giustificò in tutte le loro stranezze; visse povero in uno stato di grazia molto vicino alla santità.
E la sua fu una strana santità laica non sfiorata mai da alcun dubbio”.
Proprio Timpanaro fu anche un eccezionale modello: i ritratti del personale collezionista emersero da foglietti scuri a getto continuo.
E nello stesso periodo vennero fuori proprio quelle incisioni, “memoria della Liguria”, e che sono rarissime.
Sono ricordi allusivi della terra dell’infanzia, che racchiudono in un esiguo spazio l’emozione, l’ondeggiare di una palma, il guizzo rapido o il fremere di alcuni esili alberelli, più tardi, l’insopprimibile`souvenir delle lampare, la notte, al largo, davanti alla Punta del Mesco, a Monterosso al Mare.

Mentre la poesia di Montale e affollata di riferimenti al paesaggio ligure, tuttavia un paesaggio rivisitato che spesso non risponde al reale, ma soltanto evocato, i “dipinti liguri”, al contrario, sono rarissimi, come se la rappresentazione del mondo creativo per immagini di Montale appartenesse ad un altro universo.

Cinque Terre.
E’ la possibile visione all’acquaforte di un ricordo del paesaggio ispiratore di Ossi di seppia

I temi preferiti le spiagge deserte, verosimilmente la Versilia, Forte dei Marmi, con cabine isolate e ombrelloni che sembrano alberelli rinsecchiti, un tapiro, il cigno, cavallini capaci di aprire all’immaginario luoghi segreti come orti rinserrati, santuari custoditi dentro a piccole bocce di vetro entro cui “si vede” venir giù la neve o volare colombe: è il mondo dei pastelli dello schivo poeta nella cui unità si fonde una delicatezza scoraggiante, “una dolcezza inquieta”.
Poi, i ricordi dei viaggi, tra i quali, traccia, lo strepitoso Chaier de Normandie, ricco di ben quindici “impressioni” dichiarate con l’aiuto del rossetto per labbra e di fiammiferi spenti.
“[…]  paesaggio fluviale, oggi rotto dai profili di troppe gru e ciminiere di opifici e di navi. Di questo paesaggio, mancando di altri mezzi, ho fatto una copia, servendomi di fiammiferi spenti, macchie di caffè, vino, aceto e rossetto per labbra […]”
Per godere i dipinti di Montale è necessaria una leggera digressione: affrontare un rapporto col paesaggio, personalissimo in Montale.
Nella sua poesia, pur sembrando cosi esemplarmente delineato, il paesaggio si esprime con un altro sentimento, quello cioè che ha affinità con una sorta di altro mondo, che proprio coi paesaggio nulla ha a spartire.
Troppe volte, per puro piacere e per perversa pignoleria, in molti, siamo andati dietro i versi di Montale per scoprirvi dei luoghi: palesi o solamente mostrati per allusione.
E nel piacere di riconoscerli li abbiamo catalogati, trasformandoli in reperti cartacei di un improprio museo montaliano.
Ci siamo consentiti, con la poesia di Montale, forse anche abusando, una specie di controtipo dei posti da cui i suoi versi rimandano schegge, bagliori, immagini.
Immagino queste immagini come il delirio delle immagini.
Siamo obbligati perciò a sentire il senso del sotterraneo brivido che prende quando ci si trovi davanti alle opere “dipinte” da Montale.
È uno stato unico.

Cacciatore, 1950


E, in questo caso, il “giudizio critico”, non induce a dire “anche grandissimio in pittura” o “sublimemente dilettante”.
L”opera dipinta e altra cosa.
In poesia, forse questo e il metro giusto per il Montale che “ricostruisce” con i gessetti i suoi paesaggi interiori,  ogni soluzione e arbitraria e fortemente aleatoria.
Capire appunto i paesaggi: un mondo variegato, ove luci e riflessi, polverie spaventi, personaggi e ombre, luoghi, ci avvolgono con le loro rattrappite angosce.
Questi dipinti sono “opere di pietà” abitate da piccoli animali, evocanti deserti paesaggi su cui domina il tuono del silenzio.
Eugenio Montale coi suoi pastelli sembra abbia voluto “esplorare”, abbracciandolo, ancora di più il “mistero”.
Ha affidato al colore sommesso quel che talvolta non si può scrivere: quanto si sente e ci è impossibile riferire.
Di fronte all’ineffabile si ha bisogno di scandagli ulteriori: di un segno, di uno sfrego che riformuli illusoriamente una vibrazione.
Quando davanti al mistero del mondo si oppone l’inesplicabile, l’unica scelta possibile sembra essere solamente la fuga, trovando appunto un pertugio da cui evadere, agguantare la maglia più rilassata di un roccolo e volare via.
Le “poesie colorate” di Montale offrono così la possibilità di andare un poco oltre, per condurci in un territorio vago e sfumato, un luogo di quiete, di gioia e dolore, per quanto la vita consenta e neghi a un
tempo.

A questo punto e impossibile scrivere di Montale esclusivamente come poeta, saggista, pittore.
Si può intendere un tutto unico: l’uomo Eugenio che induce ad essere un poco più disperati, imprigionati come suoi pastelli dal limite di una cornice.

Galleria

Giuseppe Marcenaro, Quelle poesie color silenzio, in M. Tealdi, Paesaggio di un volto. Montale e la sua Liguria,  GGallery, Genova, 1991.
Franco Dioli, Redazione Web, 2021