Gio Enrico Vaymer

Genova 1665 – 1738

Gio Enrico Vaymer e la figura stessa dell’artista hanno subito nei secoli una parabola di inesorabile discesa verso una situazione di statico oblio: egli, che fu in vita un ritrattista assiduamente ricercato dalla nobiltà genovese e dai reali sabaudi e che venne lodato, a pochi decenni dalla morte, dalla storiografia artistica locale, non godette nell’Ottocento di una particolare attenzione, per venire infine completamente trascurato dalla critica novecentesca.
La principale causa di tale andamento, peraltro comune a svariati pittori genovesi, risiede in quel tardo orientarsi da parte della letteratura specialistica verso la pittura genovese del Seicento e Settecento; ma risulta nello specifico determinante il ruolo rivestito, per il genere della ritrattistica locale, da due artisti, Gio Bernardo Carbone e Gio Maria Delle Piane detto il Mulinaretto, acriticamente ritenuti  soprattutto dagli studi della prima metà del Novecento, gli unici detentori, in epoche diverse, di monopoli artistici verso i quali far confluire uno sterminato numero di attribuzione.
Eppure le fonti coeve, e in particolare le Vite redatte da Carlo Giuseppe Ratti, forniscono un panorama assai ricco di pittori, attivi fra Sei e Settecento, applicati, anche marginalmente, alla ritrattistica ma adombrati dal particolare successo, soverchiante su altro artista dedito a tale genere, goduto già presso i contemporanei dal Mulinaretto, divulgatore dell’ eloquio francesizzante: ciò determinò il perpetuarsi di una notevole fortuna collezionistica in suo favore, nonché di una totale estensione del suo nome ogni ritratto di parvenza settecentesca.
Gio Enrico Vaymer coetaneo del Delle Piane e suo compagno nel corso della formazione romana, venne dimenticato dai posteri, fu tuttavia assai stimato dal pubblico di committenti i quali, anche in considerazione della scarsa permanenza a Genova del Mulinaretto, attratto da alcune fra le più prestigiose corti italiane del momento, ebbero certo modo di apprezzarlo e di affidargli, in qualità di artista specializzato e dalla formazione parallela a quella mulinarettiana, il ricercato ruolo di eternarne le effigi.
È quanto emerge dalle utili indicazioni biografiche fornite, a proposito del pittore, dal Ratti, il quale lo inserì in quell’ esiguo numero di artisti specializzati “in rittrar persone co’ propri e simili lineamenti”, costituito dal Gaulli  “non men dele il Carbone, il Mulinaretto, il Cassana e i cotanti celebri e non certamente a questi inferiori Domenico e Pellegro Parodi”: nella più spontanea versione manoscritta delle Vite, è dunque evidente quanto al biografo interessasse innanzitutto collocare il pittore nel contesto della tradizione ritrattistica genovese, avviata dal Carbone e rinnovata grazie alla nuova generazione di divulgatori di quella gradita pittura corretta e composta sortita dalla depurazione romana e marattesca dell’eloquio barocco genovese.
Nell’incipit dell’edizione a stampa il biografo diede invece più immediato spazio a lodi dirette verso il pittore, giudicato “eccellente” al pari del Mulinaretto .
Il campanilismo che spesso spinse il Ratti a lodare gran parte degli artisti trattati si abbina, nel caso del Vaymer, ad una incondizionata stima per la scelta di una formazione romana presso il Gaulli, condivisa anche dal Mulinaretto: “la scuola, che comune ebbero questi due valenti Artefici, e l’indefesso studio, che praticarono, col corredo d’un ottimo talento, furono motivo che ambedue tanto si segnalassero”.
Il Ratti fu inoltre il primo ad offrire un giudizio sulla fortuna collezionistica dell’artista, anch’esso suscettibile, come mostra la rassegna degli inventari di fine Settecento e ottocenteschi, ad una flessione a vantaggio del Mulinaretto e di Domenico Parodi: nel corso dell’attività dell’artista, “i nobili, le dame e le persone più ragguardevoli tutte disiavano d’esser da lui dipinti”  e ancora  Luigi Lanzi,  nella sua monumentale Storici pittorica, trattò del pittore e ne giustificò il successo soprattutto per il “sapere” e il “credito” derivante dall’aver praticato a Roma il Gaulli.
Sarà l’Alizeri per primo a rilevare che il Vaymer, pur condividendo con Mulinaretto la formazione, lo stile e “dirò anche la fortuna”, «non ebbe però ugual nome ne’ posteri, poiché non è ritratto del loro stile che il volgo de’ conoscitori non ascriva ciecamente al Mulinaretto”.
L’erudito, che peraltro appellò in più occasioni il pittore come “ottimo ritrattista”, presentò una situazione destinata a scivolare in una parziale perdita della memoria storica del suo nome.
Il nascondimento dunque della produzione dell’artista sotto i nomi di Carbone e Mulinaretto, originatosi in prima istanza dalla sfortuna critica subita nel corso dell’Ottocento dalla cultura figurativa dei due secoli precedenti, ha causato una pervicace assenza del pittore dai circuiti dell’interesse critico e una circolazione in incognito di molte sue opere in esposizioni o, soprattutto di recente, nel mercato antiquario.
Sempre più urgente e doverosa diventa, a tal punto, una riabilitazione dell’artista.

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