Pellegro Piola
Genova 1617 – 1640
Pellegro Piola la cui vita è stata troncata a ventitre anni dal ferro mortale di un collega, si dice, invidioso.
Tralasciando «di ravvivare al mondo la memoria (di questo Piola) … con penna tinta d’inchiostri temprati di lacrime» (Soprani), come pur s’usa, a considerarne le poche opere certe, egli non rivela le qualità di un «enfant prodige»; anzi il Soprani stesso – che gli era amico e lo frequentava e che, tanto interessato alla pittura e più anziano di lui, era in condizioni di ben giudicare – ammette ch’egli «incontrò su il principio qualche difficoltà così nel componere con buon ordine le historie, come ancora in colorirle con la dovuta dolcezza».
Da Gio Domenico Capellino, del quale fu alunno per cinque anni, non doveva aver appreso altro che il mestiere e semmai il suggerimento di appoggiarsi agli altri: sicché Pellegrino si trovò poi a difendersi da chi lo diceva «solito a specchiarsi nelle stampe dei maestri migliori» (Soprani).
La pittura contemporanea non sembra interessarlo quanto «gli antichi e buoni maestri»: nella Sant’Orsola e nella Sacra Famiglia con Santa Elisabetta e San Giovannino nel Palazzo Rosso e poi nello stendardo della Madonna del Rosario con Santa Caterina da Siena e San Domenico ora all’Accademia Ligustica di Belle Arti, e finalmente nella Madonna con il Bambino, San Giovannino e Sant’Eligio ancora nella sua edicola in via Orefici (1640), si possono cogliere tracce ora di Andrea del Sarto, ora del Parmigianino, dei Carracci, di Giulio Cesare Procaccini.
A giudicare dalle poche opere certe (e non da quelle ieri e oggi attribuitegli a casaccio) l’eclettismo di Pellegro appare meno pronto ma anche meno casuale di quello del Fiasella.
La figura di Pellegro Piola, marginale nella vicende della nostra pittura non fosse altro che per i suoi pochi e acerbi i frutti, appare singolare, e per questo interessante, per la posizione solitaria che egli, giovanissimo, s’assume in questi anni, quando la citta poteva vantare maestri come L’Ansaldo, Luciano Borzone, il Fiasella, l’Assereto, Gio Andrea e Orazio de Ferrari; una posizione che denuncia, anche se espresso in termini scolastici e perfino anacronistici, uno spirito secessionista: come quello che, di lì a pochi anni, animerà di tutt’altra forza e di tutt’altro orientamento, ad esiti nuovo, neomanieristici e barocchi, anziché al recupero di un prediletto passato, l’intelligenza finissima di Valerio Castello.