Domenico Parodi

Genova 1672 – 1742

Domenico Parodi indirizzato agli studi classici, dimostrò una propensione per la poesia e un interesse per l’arte stimolato nella sua prima formazione artistica, oltre a lavorare la creta, acquisì i rudimenti del lavoro nel marmo e fu iniziato alla pittura da Domenico Piola, suo padrino di battesimo.
Tra l’ottavo e il nono decennio del Seicento seguì il padre in Veneto: a Venezia frequentò la bottega di Sebastiano Bombelli, dipinse una S. Cecilia e si dedicò allo studio dei maestri veneti.
Grazie alla mediazione paterna dipinse una tela, La Vergine con il Bambino e s. Antonio, che propone il tradizionale schema del dialogo mistico e mostra una personalità artistica già definita: una concezione dinamica e fluida, memore di Correggio, e una sapiente gestualità.
Rientrato nel 1694 a Genova firmò con Jacopo Antonio Ponzanelli una lettera per difendere il diritto a esercitare l’arte della scultura senza doversi iscrivere alla Corporazione.
Il 1695 segnò il suo esordio nel contesto genovese:realizzò per Giovanni Andrea III Doria una tela con la Visione di s. Giovanni de Matha e s. Felice di Valois (chiesa di S. Benedetto al Porto).
Il legame con i Doria, favorito probabilmente dal padre Filippo, si protrasse sino agli ultimi anni di vita dell’artista e secondo recenti proposte tale rapporto gli avrebbe assicurato l’incarico per L’arca dell’alleanza e Gesù scaccia i mercanti dal Tempio, dipinti per la chiesa romana di S. Maria in Vallicella.
Dei soggiorni romani di Parodi è possibile attestare solo quello tra il 1695 e il 1699.
Frequentò Giovanni Battista Gaulli e Carlo Maratti: il primo nutrì la sua ‘anima’ barocca in continuità con quanto appreso in patria, mentre il secondo lo indirizzò a porre quale fondamento della sua arte il disegno, adottando forme delineate con chiarezza e in maniera composta e una tavolozza pittorica dagli accordi tonali vivaci e dai bilanciati contrasti chiaroscurali.
Il rientro nel contesto genovese significò altresì presentarsi all’élite locale quale continuatore della tradizione dell’affresco, conciliando in tal modo le istanze encomiastiche della committenza con il desiderio di mostrarsi artista aggiornato.
Entro questa strategia è da ricondurre la Gloria della famiglia Negrone, allegoria celebrante la magnificenza del casato che gli procurò molti sostenitori nel concorso del 1700 per la decorazione del Salone del maggior consiglio di Palazzo Ducale vinto non senza aspre polemiche dai bolognesi Marcantonio Franceschini e Tommaso Aldrovandini ma l’artista fu in seguito parzialmente risarcito con la committenza delle Virtù cardinali, dell’Amor di Patria e dell’Amor Divino per il Salone del minor consiglio, monocromi distrutti in un incendio nel 1777.
Alla morte del padre nel 1702 ereditò il fiorente laboratorio da scultore e i fidati collaboratori, per primo Francesco Maria Biggi, che lavorarono all’ombra del titolare traducendone i bozzetti nel marmo.

Domenico Parodi divenne pertanto il solo in ambito locale ad affiancare, a una brillante attività di pittore, la conduzione di una bottega da scultore; un riflesso di questa versatilità è riscontrabile anche nei disegni predisposti per manufatti scultorei a fama di artista ‘completo’ varcò i confini locali: sulla scorta di questa notorietà ricevette, infatti, l’incarico per il busto di Giovanni V, re di Portogallo.
Nel primo decennio del Settecento la sua attività fu connotata da spunti di eccezionale originalità e versatilità, prova ne sono le committenze dell’Ordine ignaziano a Genova: gli affreschi della cappella domestica nel Collegio gesuitico e il rifacimento della cupola della chiesa del Gesù con pitture e stucchi.
Come ben esemplifica il suo Autoritratto  eseguito nel 1719 l’interesse per l’epica e la poesia pose l’artista-letterato in un dialogo privilegiato con la committenza più colta e ricercata.

Nel 1712 eseguì gli affreschi della cappella di Nostra Signora di Loreto nella chiesa di S. Maria Maddalena e sempre nel secondo decennio del secolo è da situare l’intervento nella dimora di Carlo e Stefano Pallavicino in Strada Nuova, dove creò un’armoniosa osmosi tra spazi interni ed esterni.
Tra il 1712 e il 1715 Gerolamo Ignazio Durazzo, affidò a Parodi la raffigurazione di Diana ed Endimione e intorno al 1725 il medesimo committente lo incaricò altresì di progettare l’allestimento della sontuosa Galleria degli Specchi.

Bacco e le menadi, Galleria degli specchi di Palazzo Reale, Genova

Il suo spiccato senso scenografico, retaggio della formazione secentesca, si palesò anche nel ruolo di regista per cerimonie e per feste pubbliche e private, va ricordato uno spettacolo pirotecnico per Giovanni Andrea III Doria-Pamphilj in occasione dei festeggiamenti per la presenza in città di Carlo Alberto di Baviera.
Sono questi gli anni in cui Domenico alternò l’attività di pittore a quella di scultore, conquistandosi il favore presso una prestigiosa committenza europea
Domenico Parodi tra il 1713 e il 1725 si impegnò oltre che nel campo della ritrattistica scultorea, come attestano i busti di Marcello Durazzo e Giacomo Filippo I Durazzo, anche in quella pittorica.
Il diffondersi del gusto francese nel Settecento attraversole opere di Hyacinthe Rigaud e di Nicolas de Largillière segnò una nuova evoluzione nella sua pittura: egli acquisì infatti il codice ritrattistico d’Oltralpe raffigurando la nobiltà con pose e gesti di raffinata eleganza, a cui contribuì l’uso di una tavolozza pittorica dai toni argentei.

Alla morte di Paolo Gerolamo Piola nel 1724, Parodi e Lorenzo de Ferrari divennero i principali referenti della committenza locale.
Dalla fine del terzo decennio del secolo perdurò nell’uso di un linguaggio allegorico articolato in formule ripetitive, che si fecero stanche e prive di qualità pittorica, indice di un passaggio di consegne ai suoi collaboratori.
L’anno seguente la vedova Angela Maria vendette a Gerolamo Ignazio Durazzo le opere del defunto marito, che entrarono così a far parte delle collezioni della sua residenza, attuale Museo di Palazzo Reale.

Presepe di san Giuseppe, Palazzo Reale, Genova

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