Genova 1664 – 1739

Anton Maria Maragliano scultore ligure

Anton Maria Maragliano fu battezzato nella locale chiesa di S. Stefano, lo zio Giacomo Maragliano, fratello della madre, in un atto del 1660 è definito “faber lignarius”.
Il biografo Carlo Giuseppe Ratti (1769) ricordò come unico maestro del Maragliano Giuseppe Arata, del quale sono stati individuati di recente alcuni dignitosi simulacri.
Dal 1680 è alla bottega di un altro zio Giovanni Battista Agnesi, specializzato nella lavorazione di mobili e di sculture.
È ipotizzabile, in considerazione della tarda età in cui affiancò Agnesi, che l’eventuale alunnato con Arata dovette precedere quello con lo zio, al quale seguì una fase di collaborazione con la bottega dei Torre, dove “stette alcuni anni” (Ratti, 1769).
Lo studio dell’anatomia, dei panneggi e della loro riproducibilità fu sicuramente perfezionato presso Giovanni Andrea Torre, in parallelo a un’osservazione attenta delle opere disponibili di Giambattista Bissone, sulle quali praticò “frequenti copie”.
Non disponendo di notizie che diano conto di un viaggio di studio del Maragliano fuori Genova, è verosimile che egli “diedesi a fare alcuna cosa da se”, confrontandosi con la grande tradizione lignea genovese, con le sacre rappresentazioni seicentesche di Gerolamo Del Canto e Marcantonio Poggio e le loro fonti culturali, tra le quali vanno annoverati i Sacri Monti piemontesi e lombardi.

Il biografo inserì inoltre nel periodo formativo “l’amicizia del pittore Domenico Piola” che “giovolli” e da cui “bevve ottimi precetti sul modo di comporre le storie, d’aggruppar le figure, di formare putti”.
Anton Maria Maragliano utilizzando spunti progettuali tratti dai fogli sortiti da “casa Piola”, giunse a dare aspetto tridimensionale alla sigla piolesca, ricca di grazia e di elementi scenografici assumendo ben presto il ruolo di rinnovatore della tradizione lignea e di detentore del monopolio produttivo in stretto contatto con la poetica barocca divulgata dagli amici pittori e scultori in marmo, fra i quali spicca, oltre a Filippo Parodi, anche il marsigliese Pierre Puget, propagatore del linguaggio berniniano a Genova, che fu, secondo un’annotazione di Ratti, “estimatore del Maraggian”.
La meta dell’itinerario formativo si concluse con l’apertura di uno “studio da se’ in strada Giulia”, dove egli “ammise discepoli”.
Da qui prese avvio un’attività frenetica che fornì alla variegata committenza, costituita da confraternite, chiese parrocchiali, ordini religiosi e famiglie aristocratiche, maestose macchine processionali (“casse”), crocifissi, sculture da altare, reliquiari, arredi, statuaria per presepi.

Datano rispettivamente al 1694 e al 1700 le prime due casse documentate: il S. Michele Arcangelo (Celle Ligure, oratorio di S. Michele) e il S. Sebastiano (Rapallo, oratorio dei Bianchi) offrono infatti i primi risultati noti, già caratterizzati da un’indiscutibile maturità scultorea, dell’invenzione delle nuove macchine, impostate su canoni di spettacolarità barocca attinti a piene mani dagli esiti dei colleghi pittori e scultori, come dimostra la serrata dipendenza dal dipinto e dalla scultura, di identico soggetto, realizzati anni prima rispettivamente da Gregorio De Ferrari (Genova, chiesa di S. Maria delle Vigne) e da Pierre Puget (Genova, basilica di Nostra Signora Assunta di Carignano).
In quegli anni si può collocare anche l’esecuzione dell’Incoronazione di spine (Savona, oratorio dei Ss. Agostino e Monica, ora chiesa di S. Lucia), dove l’azione drammatica è resa attraverso linee spezzate e un netto contrasto tra la bellezza del Cristo e le maschere demoniache dei carnefici.
Anton Maria Maragliano nelle sculture raffiguranti l’Immacolata (Genova, chiesa di S. Teodoro) con S. Francesco d’Assisi e Giovanni Duns Scoto (Genova, santuario della Madonna del Monte), poste nel 1704 sull’altare maggiore della distrutta chiesa di S. Maria della Pace a Genova, realizzò una suggestiva sacra rappresentazione all’insegna di un’esuberante grandiosità nel gigantismo delle proporzioni e nel vorticoso panneggio del manto mariano.


Fra il 1708 e il 1709 produsse il S. Nicola di Bari (Albisola Superiore, chiesa di S. Nicolò), che incede fra gli ampi panneggi dei suoi paramenti trattenendo il pastorale, e il S. Francesco stigmatizzato (Genova, chiesa del Padre Santo), spettacolare cassa realizzata con esiti di eccellenza, basti pensare allo straordinario Cristo Serafino che incombe sul santo illanguidito dall’estasi, per l’oratorio genovese dedicato all’assisiate.
A quel periodo appartengono le grandiose macchine raffiguranti la Visione di s. Giovanni Evangelista in Patmos (Ponzone d’Acqui, oratorio del Suffragio), proveniente dall’oratorio genovese dedicato al santo all’interno del complesso di S. Giovanni di Prè, e S. Antonio Abate contempla la morte di s. Paolo Eremita (Mele, oratorio di S. Antonio Abate), in origine presso l’oratorio urbano; sono questi i più alti esempi di un complesso schema che si risolve in senso spettacolare e narrativo. L’Immacolata e il S. Francesco (Genova, chiesa di S. Nicolosio), scolpiti intorno al 1710 e provenienti dall’oratorio dei Ss. Ludovico ed Elisabetta in Castelletto, rivelano nelle loro piccole dimensioni una scrittura formale raffinatissima.
Il rinnovamento delle tradizionali casse seicentesche e dei gruppi d’altare fu realizzato nel segno di un linguaggio teatrale e di una cifra stilistica in sintonia con l’interpretazione genovese, fra il grandioso e il grazioso, del barocco romano. Attraverso colte citazioni, pose ardite e forme dinamiche il Maragliano si fece interprete di un barocco assai suggestivo: la predilezione per pose avvitate e sinuose torsioni ricorre in ogni simulacro, unitamente all’attenzione esasperata per l’ondulato disegno conferito alle pieghe dei panneggi, mai casuali ma sempre estremamente ornamentali.
Il secondo decennio del secolo è il più intenso di commissioni documentate.
La prima documentazione finora nota relativa ai crocifissi risale al 1712 e riguarda il Cristo spirante di Sori (chiesa di S. Margherita, altre opere dissimili per misure e finalità, ma accomunate da uno stesso linguaggio e dalla già acquisita caratterizzazione fisionomica del volto, scavato e con la bocca schiusa per il Cristo in agonia, dal naso affilato e dalle sfere oculari sporgenti per quello morto.

Crocifisso, 1723 , Santuario della Madonna della Costa, Sanremo

Negli anni Venti, Maragliano, che da tempo aveva assistito all’introduzione a Genova di un nuovo linguaggio settecentesco, fiorito grazie alle arditezze del pittore Gregorio De Ferrari e alla circolazione fra le diverse botteghe di repertori di decori, parve infondere alle sue sculture una vaporosità tutta rocaille, ammorbidendo ancor più i volumi, rendendo calligrafici e sempre più vitali i panneggi e sovrastando le esigenze narrative tramite l’attenzione all’ornamento formale.
Inoltre nel corso degli anni Venti si consolidarono i contatti con la committenza spagnola in virtù dei legami commerciali con la Repubblica di Genova o grazie alle mediazioni di genovesi residenti in Spagna: il Maragliano, che secondo Ratti inviò suoi lavori “fino in ambedue le Americhe”, ebbe grande fortuna in terra spagnola, lo scultore restava sempre il titolare delle commissioni pur avendo ormai impostato un lavoro d’équipe. In genere questa prassi diede corso a una produzione di bottega dai tratti più semplificati e dai caratteri piuttosto stereotipati.
Nel corso degli anni Trenta accanto alla creazione di opere ancora condotte per la maggior parte dal maestro, come la Madonna del Carmine con s. Simone Stock (Pieve di Teco, collegiata di S. Giovanni Battista, 1730), il Martirio di s. Caterina d’Alessandria (Sestri Levante, chiesa di S. Pietro in Vincoli, 1730), il Crocifisso di S. Michele di Pagana (chiesa di S. Michele, 1738) e le Tentazioni di s. Antonio Abate (Chiavari, santuario di Nostra Signora dell’Orto, 1735 circa), aumentarono i lavori a lui commissionati, ma eseguiti in gran parte dagli allievi.
Anton Maria Maragliano in questi anni con i collaboratori di bottega, realizzò due grandiose rappresentazioni, assai complesse per il numero delle figure. Il S. Pasquale adora il Ss. Sacramento (1735), nella cappella del transetto sinistro nella chiesa della Ss. Annunziata del Vastato a Genova, è uno spettacolare “quadro di scultura” dove il santo, calato in un paesaggio bucolico dipinto sulle pareti della nicchia, assiste al vorticoso tripudio di putti e fluttuanti arcangeli che esibiscono, inondati dalla luce naturale della lanterna soprastante, il Sacramento eucaristico.

Una seconda apparizione devota fu eseguita, tra il 1735 e il 1737, nell’abside del santuario di Nostra Signora della Costa a San Remo, dove il Maragliano creò un sontuoso apparato intorno alla preziosa tavola mariana della cerchia di Barnaba da Modena, centro verso il quale fece convergere gli sguardi e i gesti dei Ss. Giuseppe, Gioacchino e Anna in un “bel composto” di ispirazione berniniana simulante la materia marmorea.
Del resto alla committenza, certo consapevole dell’età avanzata dello scultore, importava il prestigioso imprimatur fornito all’opera dal Maragliano che, come è specificato nel contratto per la macchina ovadese, poteva avvalersi a sua scelta di un altro artefice. In quest’ultimo gruppo i panneggi disposti in piegature cuneiformi, i visi tondi carpiti dai modelli classici, le posture pacate costituiscono le avvisaglie dell’evoluzione in chiave accademica della statuaria lignea dei maraglianeschi di nuova generazione.
La bottega, in particolare, rappresentò un’allettante possibilità occupazionale per molti congiunti, probabilmente gli allievi più meritevoli, soprattutto se imparentati con il Maragliano, potevano trattenersi in bottega oltre il raggiungimento dell’emancipazione: è questo il caso dei nipoti Agostino Storace e Giovanni Maragliano, che ereditarono la bottega di strada Giulia e iniziarono a comparire nei documenti solo in seguito alla morte del Maragliano.

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