Milazzo (ME) 1925 – Genova 2003

Stefano D’Amico scultore e ceramista ligure

Stefano D’Amico compie gli studi a Palermo e a Roma, dove è allievo di Mario Mafai.
Nel 1954 giunge ad Albisola, su invito di Emanuele Luzzati, e inizia a collaborare con Bartolomeo Tortarolo, detto Bianco, nella fornace di “Pozzo Garitta“.
Due anni dopo si trasferisce a Santa Margherita Ligure e lavora come direttore artistico presso la manifattura ceramica “Pinelli” dove rimane attivo fino al 1960.
Nel 1957 espone, insieme ad Aligi Sassu, Lucio Fontana ed Emanuele Luzzati, in una mostra dedica alla ceramica d’arte tenuta alla Galleria Rotta di Genova.
Nel 1960 un suo grande pannello a rilievo dal titolo “Terra Vergine” è premiato alla mostra di ceramica di Gualdo Tadino.
Nello stesso anno ottiene la cattedra di plastica al liceo artistico “N. Barabino” di Genova e inizia a collaborare con la manifattura albisolese “San Giorgio” di Eliseo Salino.
Negli anni Sessanta apre un proprio laboratorio a Santa Margherita Ligure e nel 1961 realizza un pannello in altorilievo rappresentante la Crocifissione, oggi conservato all’Ambasciata di Spagna a Roma.
Nello stesso anno partecipa al “III Festival Albisolese della Ceramica” e l’anno successivo, alla IV edizione della stessa manifestazione, si classifica al secondo posto, a pari merito con il francese Marcel Giraud.
Stefano D’Amico è di nuovo presenta al Festival Albisolese del 1963 dove un suo piatto dal titolo “Stagno” è segnalato per l’innovazione esecutiva e tecnica.
Nel 1978 gli viene commissionato un grande pannello ceramico dai motivi geometrici destinato alla sede di “Farmitalia” a Friburg, in Germania.
Nel 1985 realizza per la sede parigina della Indesit un altro grande pannello ad altorilievo e decorato con smalti policromi dal titolo “Forme Marine”.
Nella seconda metà degli anni Ottanta torna a collaborare con la manifattura “San Giorgio” di Albisola.
Nel 1995 gli viene dedicata una grande mostra alla Galleria Rotta di Genova.
L’evocazione nostalgica di un mondo nel quale “ancora non si è perduto il contatto con la natura e con i ritmi biologici della terra e degli astri”, dove nei toni caldi degli smalti campeggiano tori e puledri, santoni e cacciatori, pellegrini e naufraghi, ed il rigore costruttivo, dispiegato in grandi strutture metalliche articolate attorno alle problematiche della percezione pura dello spazio e della luce, costituiscono le polarità opposte entro cui si è sviluppata la ricerca di Stefano D’Amico.
Decisivo per l’artista, le cui esperienze formative si erano svolte in prevalenza fra Palermo e Roma (dove nel 1950 frequenta brevemente i corsi di Mafai, entrando in rapporto con gli artisti del “Fronte nuovo delle arti“), è l’approdo, nel 1953, ad Albisola, come detto, suggerito da Emanuele Luzzati.
Qui il giovane scultore non solo ritrova Fontana, Scanavino, Baj e Dangelo, che aveva conosciuto poco prima a Milano, ma ha modo d’incontrare artisti come Jorn, Lam, Corneille e di approfondire, lavorando alla fornace di Bianco a Pozzo Garitta, le tecniche di lavorazione della ceramica, che coltiverà, fino al 1965, in maniera esclusiva, anche in funzione delle frequenti commissioni ottenute per la decorazione di nuovi edifici e di locali di rappresentanza.
Ad una prima fase, dominata da una vena affabulatoria, in cui affiorano le radici siciliane e, più in generale, mediterranee dell’artista accanto ad influenze di Picasso, di Marino Marini e del Fontana neo-barocco (in particolare ne “Il Re Sole”, 1960, o nel concitato “Cavaliere vittorioso”), fa seguito un momento in cui l’articolazione spaziale si fa più distesa, raggiungendo in bassorilievi come “Terra vergine” (1960) e “La buona terra” (1964) un rarefatto ma intenso equilibrio ed un’originale sintesi di segno e figura.

Attorno al 1965, quasi in coincidenza con l’incarico d’insegnamento assunto presso il Liceo Artistico Barabino di Genova, l’interesse dell’artista comincia (con la serie dei “Progetti di villaggio mediterraneo” e dei “Giochi”) a concentrarsi su moduli costruttivi con un raffreddamento progressivo che si manifesta anche nel passaggio dalla ceramica all’uso di una materiale “freddo”, come il ferro.
In questo radicale (seppure mediato) passaggio da forme liberamente espressive, al limite dell’informale, ad impianti geometrici, replicati ed accostati in serie, l’artista mostra comunque una predilezione per gli andamenti curvilinei (particolarmente evidenti in “Orizzontale fluido n. 1”) o per le agglomerazioni (“Organismo numero sette”) che costituisce un retaggio delle fasi anteriori e, nella seconda metà degli anni Settanta, diviene la caratteristica dominante della sua opera.
“Forza sette”, “Vento in poppa”, “Nell’occhio del ciclone” sono i titoli dei rilievi in terracotta, mossi da volute, attraversati da creste e scaglie, in cui D’Amico passa in quel torno di tempo a trasfondere l’impronta di energie primordiali, dando corpo – come nota Cecilia Chilosi – ad “una sorta di universo aprés déluge, popolato di surreali e minacciose forme fossilizzate”.
Ma questo agitato, talora cupo, scenario, dal quale le forze elementari della natura sembrano aver cancellato ogni traccia della presenza umana, si tempera nella coeva produzione scultorea, negli incavi armoniosi de “La piccola vestale” o del bellissimo “Migratore in riposo”, per ribaltarsi infine nella festosità cromatica degli ultimi piatti murali cotti a gran fuoco, “Giardini” traboccanti di piante d’un verde luminoso.
Nell’ultimo periodo della sua vita d’artista si è dedicato soprattutto all’arte “concreta” (variante italiana dell’astrattismo) abbandonando la fase figurativa e allacciandosi al gusto internazionale della figurazione geometrica astratta, dove ha rivelato un suo talento nascosto (ma nativo anche esso) per le strutture architettoniche e le quadrature plasmate, con area coerenza, nelle terrecotte, dimostrando sensibilmente il suo amore per la materia del mezzo espressivo in forme e figurazioni di originale fattura e suggestive analisi della realtà in tutta la sua estensione nello spazio e nel tempo.

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