Prima di pugnalarle a morte, l’artista argentino amava plasmare le sue opere a mani nude: prima dei tagli c’è stata l’argilla, prima di Fontana mito c’è stato Fontana scultore.

«Io sono uno scultore non un ceramista. Non ho mai girato al tornio un piatto, né dipinto un vaso. […] La prima ceramica l’ho modellata in Argentina nel 1926: il Ballerino di Charleston
acquistato dalla Galleria d’Arte Moderna di Rosario di Santa Fe».
Questo è ciò che afferma Lucio Fontana in un’intervista del 1939 per il periodico “Tempo”.
In quell’anno il suo repertorio d’esperienza è già cospicuo, ma ancora incentrato su di un percorso di sperimentazioni e di scoperte.
È probabile, infatti, che abbia iniziato a lavorare in ceramica tra il 1933-34 a Milano, presso il forno dell’amico Fausto Melotti, suo compagno di corso all’accademia.
Nel 1935, poi, inizia a collaborare con la Manifattura di Giuseppe Mazzotti, ad Albisola Marina, stingendo con il figlio Tullio una forte amicizia.
Una terza tappa fondamentale è stata la breve parentesi presso la Manufacture National di Sèvres, in Francia,  dove Fontana, vincitore di una borsa di studio, ha avuto la possibilità di lavorare tra il settembre e il novembre del 1937.
Ma è tra Milano e Albisola che Fontana sforna le maioliche più importanti, figurative e barocche.

Lucio Fontana alla festa del pesce, Albissola Marina anni 50. (Courtesy Fondazione Lucio Fontana)

Con il ritorno in Argentina, durante la Seconda Guerra Mondiale, pur non sentendosi, come in Italia, libero di sperimentare, prosegue la sua attività di ceramista, riscuotendo successo presso la critica locale, rientrato in Italia dopo sette anni di soggiorno in patria, la sua ricerca continua tra Milano e Albisola, iniziando a orientarsi verso nuove ricerche, sia figurative che spaziali.

“La materia era attraente; potevo modellare un fondo sottomarino una statua o un mazzo di capelli e imprimere un colore vergine e compatto che il fuoco amalgamava. Il fuoco era una specie di intermediario: perpetuava la forma e il colore.”

Negli anni quaranta, il suo lavoro rappresenta un’alternativa alla lezione di Pablo Picasso e alle secche del postcubismo; negli anni cinquanta, Fontana traduce in chiave tridimensionale, con la ceramica i “concetti spaziali” su tela, mentre contemporaneamente lavora ai bozzetti figurativi per la quinta porta del Duomo di Milano.

Negli anni sessanta, pur concentrandosi su ricerche del tutto differenti, la sua attività di ceramista rimane constante, che ha il suo miglior esempio nella serie delle “Nature”.
A Milano, conclusa la formazione presso l’Accademia di Brera, già a partire dai primi anni trenta, Fontana si defila dalla lezione classica del maestro Wildt, per sperimentare nuovi materiali come il gesso e la terracotta.
Questo ultimo materiale, in particolare, rappresenta per lui il mezzo più adatto per tradurre la propria tensione creativa che lo porta a rendere, attraverso l’uso spiazzante del colore e la manipolazione plastica diretta, la distinzione tra pittura e scultura meno netta.

Ma quando, verso la metà degli anni trenta, incomincia a lavorare in ceramica, la sua ricerca raggiunge risultati del tutto nuovi.
Questo materiale, infatti, rappresenta il mezzo migliore per esaltare il nesso spazio-colore-forma e la necessità di un rapporto fisico materico con il mondo naturale.
La ceramica, infatti, ha la capacità, attraverso una fluida fusione dei colori e quel suo riflesso lucido, quasi “ambientale”, di accentuare il rapporto con lo spazio.
A questo proposito, Argan nel 1939 scrive: «Il colore non è un fenomeno di superficie, una determinazione o una variazione tonale del chiaroscuro inerente alla solidità materiale della cosa scolpita, ma è un principio plastico, spaziale della scultura di Fontana. […] Il riflesso […] è appunto la forma concreta di uno spazio senza profondità, aderente alle immagini come una seconda pelle. […] la stessa materia “sa” di spazio, partecipa allo spazio e più ancora per la continua palpitazione del modellato, che
per una vibrazione superficiale all’azione esterna della luce».

Ballerina, 1952

E ancora, nel 1960: «Le ceramiche figurative di Fontana stanno a dimostrare che la luce e il colore sono fatti di materia ed entrano nella ricerca spaziale in quanto questa si compie, attraverso la materia».
Secondo Argan, quindi, l’uso constante degli smalti riflessati rappresenta per Fontana un mezzo per accentuare la smaterializzazione della plastica, mentre il colore rappresenta la luce che annulla il volume e assume un valore determinante nella liberazione della forma. Inoltre, i colori innaturali, come il violetto, il rosa, il verde pistacchio, che l’artista utilizzava in queste sue prime opere, sono stati visti come influenzati dai coevi acquerelli di Kandinskij, che Fontana ha avuto modo di vedere alla mostra dell’artista russo tenutasi presso la Galleria del Milione nel 1934.
Appare dunque naturale che l’utilizzo della ceramica rappresenti una logica conseguenza e un arricchimento in chiave naturalistica delle esperienze del primo decennio, a quell’arte intuitiva e primitiva esaltata dall’uso della terracotta.
Ma, mentre quest’ultima è dipinta a freddo dopo la cottura, la maiolica gli offre l’imprevedibilità della realizzazione.
Il fuoco è per lui una specie di intermediario: perpetua la forma e il colore e offre risultati del tutto inediti.

Cavalli marini, 1938

Ricorda Enzo Fabiani: «di giorno gli artisti lavoravano, nelle varie fabbriche; e ciascuno cercava di modellare non solo nuove forme, ma anche di escogitare nuovi effetti coloristici.
“Se quel rosso viene fuori come lo voglio io, Fontana è fregato per sempre” diceva Sassu; e Fontana: “Se questo bianco, che ho inventato io, viene come l’immagino quel toscanello di Fabbri può ritornarsene a Barda, al paese suo. E Tullio che di riflessi se ne intendeva davvero rideva ascoltandoli, perché sapeva che il rosso sarebbe diventato magari viola, e il bianco arancione. (Poi però impararono a dovere l’uso dei colori, e le sorprese furono minime)»
In quelle prime estati trascorse ad Albisola, Fontana non solo abbandona la terracotta come medium, ma interrompe anche la citazione martiniana alla archeologia etrusca, virando verso un gusto capriccioso, barocco.
Già la critica dell’epoca rileva quel carattere barocco che è proprio della scultura in ceramica.

Esa, 1953

Il barocco, infatti, è interpretato dal rosarino non stilisticamente, ma idealmente e spazialmente, secondo le caratteristiche che gli sono proprie, ossia di cancellare le distinzioni tra scultura pittura e architettura.
In un’intervista a Fontana fatta da Bruno Rossi nel 1963, egli dice: «per un certo tempo ho fatto una scultura a colori, che si suol, dire, impropriamente, barocca. Volevo far entrare la luce nella scultura. Cercavo insomma una nuova dimensione»
Le ascendenze barocche di Fontana, di conseguenza, sono state interpretate in termini di recupero di quel dinamismo, di quel fare plastico che è caratteristica essenziale della sua scultura in ceramica.
Secondo Attilio Podestà, Fontana «ha trovato forse nella preziosa materia il mezzo d’espressione più proprio di un problema personale di fusione di pittura nella scultura, nell’ordine delle loro intenzioni primordiali.
La materia si dispone nello spazio con la massima libertà elastica ed espressiva».

L’utilizzo della ceramica è quindi finalizzato alla possibilità di «far grande», cioè di operare in una dimensione architettonica.
Di qui anche il tono polemico nei confronti delle ceramiche di Sèvres e dei Copenaghen con il cui gusto, è egli stesso ad affermarlo, «si arriva a soddisfare il gusto delle signore e dei collezionisti».
La sua ceramica, invece, si pone in netta opposizione rispetto a quella classica d’oltralpe e trova sostegno nella rivoluzione futurista animata da Tullio d’Albisola.
Dichiarandosi scultore e non ceramista, egli considera sé stesso come un artista che è riuscito ad andare oltre certe abilità artigianali, ed è riuscito a liberarsi da ogni compromesso di materia e di forma e a svincolarsi da ogni classificazione o precisazione.
Il merito di Fontana, infatti, è stato quello di rivoluzionare la tradizionale tecnica ceramica, ornamentale e decorativa, avviando una ricerca di arte pura, «ricerca di forme e colore e vibrazioni di luce, antidecorativa nel senso decadente alla quale era avvita quest’arte».

Paulette, 1938

La ceramica, in altre parole, per Fontana diventa un mezzo per sperimentare, per forzare la stessa scultura, con la finalità di unire spazio, colore e materia.
Dal punto di vista critico la prima testimonianza della sua produzione ad Albisola è di Luigi Pennone, che parla addirittura di “fenomeno Fontana” «divoratore di terra, graffiata, foggiata
e compiuta a espressione nitida nel breve tempo consumo d’un “Lucky”.
Ha cominciato in sordina l’estate scorsa con cavalli e coccodrilli che nuovi smalti facevano vibrare realizzando per lui quella soluzione pittura-scultura vagheggiata a più riprese: ed ha voluto subito far grande, enorme a contrasto dei ninnoli splendenti da salotto con tartarughe di un metro e cai-ani di cinque metri.»
Con questo articolo Pennone vuole metter subito in luce lo straordinario naturalismo espressionista proprio della sua ceramica.
Attraverso il repertorio di questo primo periodo, Fontana sembra volersi mescolare alla natura, penetrandola.
Rompe con l’antica ceramica per darci «il resoconto plastico di un fantastico viaggio sottomarino: aragoste, polipi coralli, cartocci d’alghe cristallizzate, corolle e mazzi d’asparagi fosforescenti.

Polpo e coralli, 1937


Aveva rotto a colpi di bastone tutte le antiche simbologie della maiolica e della porcellana inventando nuove forme e colorazioni solari». La materia, simile a magma, si espande e si dispone liberamente nello spazio fino a sommergere gli oggetti rendendoli simili a rocce.
Continua ancora Carrieri: «La materia di Fontana è incandescente, ricca di grumi minerali e di sostanze azoniche: nel cuore di queste statue si potrebbe trovare il diamante. […] tutto quello che fermenta nella terra è diventato immagine plastica […] la materia si svincola dai soliti schemi e vive autonoma, progredisce davanti ai nostri occhi, è una metamorfosi continua.»

Camilla Nappa , 2017
http://dspace.unive.it/bitstream/handle/10579/11751/988726-1213295.pdf?sequence=2

IDAL800900 Istituto Documentazione Arte Ligure E.T.S. ringrazia Fondazione Lucio Fontana che prosegue tutt’oggi con molteplici attività allo scopo di mantenere sempre vivo il ricordo di Fontana presso i suoi tanti estimatori ed amici.

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