La critica d’arte specializzata nel settore delle arti figurative nasce in Liguria proprio nel periodo in cui ha vissuto Rubaldo Merello e trova via via uno specifico ed adeguato spazio sulle pagine dei quotidiani locali come “Il Lavoro”, “Il Secolo XIX” e il “Caffaro”.
In particolare quest’ultimo può essere considerato il portavoce degli interessi e dei gusti dell’ambiente borghese genovese del periodo a cavallo tra la fine del vecchio e l’inizio del nuovo secolo.
Già negli ultimi anni dell’Ottocento aveva avuto luogo sulle sue pagine un ampio dibattito attorno alle problematiche del simbolismo.
Nel periodo esaminato si assiste, infatti, ad un progressivo mutamento nelle posizioni critiche: da un iniziale rifiuto delle tendenze estetizzanti sia in ambito poetico-letterario che nel campo delle arti figurative si passa ad una lenta e graduale assimilazione, nonostante il permanere di retaggi veristi. In particolare sulle pagine del “Caffaro” viene esaminata la poesia di D’Annunzio, che viene considerato il “caposcuola” dei giovani poeti italiani. Vengono affrontati anche argomenti inconsueti come il Buddhismo, che riflettono lo spiccato interesse dell’ambiente genovese per le discipline esotiche, esoteriche, mistiche e spiritistiche.
Dal 1890 compaiono le prime recensioni sulle arti figurative, all’inizio limitate alle Esposizioni della locale Società promotrice di Belle Arti.
L’atteggiamento della critica, in questo momento, tendeva ad avversare la pittura accademica, ma non era ancora pronta per la corretta segnalazione ed interpretazione dei nuovi indirizzi artistici.
In occasione della recensione della mostra della società promotrice di Torino del 1892 viene tentata una prima valutazione del divisionismo, che però dimostra la totale incomprensione del fenomeno.
Man mano il giudizio critico si evolve nel tempo, riuscendo a cogliere il carattere delle esperienze divisioniste attraverso le opere dei maestri Nomellini, Pellizza, Morbelli, Segantini e Previati, esposte nelle promotrici del capoluogo genovese.
Il giornale diventa anche veicolo di divulgazione del nuovo gusto liberty che troverà facile presa sulla borghesia genovese, e tenta inoltre, di superare i limiti di un ambito provinciale ospitando, nelle rubriche artistiche, articoli di critici affermati, come Vittorio Pica.
Rubaldo Merello esponeva regolarmente accanto ai grandi maestri eppure la sua presenza non suscitava grandi consensi.
Agli inizi del secolo le uniche voci che si levano in suo favore, sono quelle di Paolo de Gaufridy, ammiratore entusiasta del divisionismo e legato da amicizia al pittore, ed Angelo Balbi cui si unirà Orlando Grosso.
Sporadici gli altri interventi, che compaiono in occasione delle esposizioni delle Promotrici cui Merello parteciperà dal 1906 al 1914, in occasione dell’esposizione al Circolo Artistico Tunnel avvenuta nel 1909, e della Mostra di artisti per artisti avvenuta all’emiciclo Olimpia nel 1911.
Il 26 giugno 1907 recensendo la LIV Esposizione della promotrice di Belle Arti sul quotidiano “Il Corriere Mercantile” esce un articolo firmato da Antonio Pastore che rileva come, indipendentemente dalla tecnica utilizzata, Rubaldo Merello riesca ad ottenere sorprendenti effetti coloristici che interpretano magistralmente la luce della Liguria: “che importa che egli ottenga l’effetto col puntillismo che ormai passa di moda, tanto che soltanto quattro o cinque ancora lo coltivano.
Ma la forza del colore? C’è un occhio vergine, fresco, che rispecchia la luminosità azzurra e profonda. Non fa bisogno di titolo a questi quadri. Non possono essere altra parte del mondo che Portofino. C’è la fisionomia, il carattere del paesaggio: come di una persona”.
Paolo De Gaufridy il critico e mecenate di Merello
Paolo De Gaufridy è, a partire dal 1906, il critico di punta del “Caffaro”.
Egli è un sostenitore di Previati ma nei suoi scritti l’attenzione verterà principalmente sulla figura del pittore Rubaldo Merello di cui tenterà in tutti i modi di portarne alla ribalta l’opera, perdendo forse di vista la situazione artistica generale, cui farà cenno solo in relazione con Merello.
Il 2 Dicembre del 1906 appare su questo quotidiano il primo di una lunga serie di articoli su Rubaldo Merello.
De Gaufridy esordisce lamentando il fatto (in seguito smentito dal critico stesso) che Alberto Grubicy si sarebbe impossessato della produzione dell’artista.
In realtà proprio De Gaufridy, nel 1906, aveva consegnato un’opera del pittore “bisognoso di aiuto” al mercante milanese. La storia di quest’ultimo è “legata alla storia delle espressioni più arditamente vive e geniali della vita artistica in Italia”.
Egli infatti riusciva a vedere lontano e riconoscere la genialità dove altri invece non vedevano che confuse esercitazioni tecniche.
Qui il riferimento è chiaramente volto al movimento del divisionismo, di cui il mercante insieme al fratello, era stato tenace sostenitore.
Ciononostante il critico intravede dei pericoli nell’operato di Grubicy e cioè il rischio che le opere d’arte dei pittori italiani vengano vendute all’estero. I giornali riportano notizie entusiastiche di queste vendite, specialmente se era stato pagato un alto prezzo, come nel caso dell’acquisto da parte del principe di Wagram di un trittico di Giovanni Segantini per l’astronomica cifra di 200.000 franchi.
Ma nel caso di Merello non si parla di grandi cifre, poichè è pressocchè sconosciuto al grande pubblico. “Egli è un pittore di veste molto umile e di denaro molto scarso, cui l’aiuto e l’incoraggiamento di un fine e fortunato mecenate viene a togliere dalla miseria squallida”. Il critico si lancia poi in una lirica presentazione dell’opera dell’artista: “S’abbandonava egli alla intima e profonda comprensione della voce della natura… vedeva egli il mondo come di lontano lontano, e vedeva egli le cose come vicino, vicino… ognuna distinguendo in tutta la loro significazione nel vasto accordo dell’armonia universale”.
Il 1 febbraio del 1908 appare sul “Caffaro” un articolo che presenta l’esposizione di Merello al circolo Tunnel.
Con questa occasione De Gaufridy spera di poter vedere sbocciare l’interesse del pubblico nei confronti dell’artista. Verranno presentate una trentina di opere, certamente un numero esiguo rispetto alla produzione di circa quindici anni di lavoro. Ma le opere non sono più in mano dell’artista e solo alcune sono state gentilmente concesse dai legittimi proprietari. Inoltre si fa qui menzione di alcune opere esposte di recente a Parigi, in una mostra privata di divisionisti italiani, organizzata dal Grubicy che le detiene ancora, e che per l’occasione verranno inviate a Genova.
Oltre ai quadri verranno esposti alcuni studi di scarso interesse, a detta di De Gaufridy, se considerati isolatamente, ma interessanti per capire il percorso artistico dell’artista la cui “opera tutta, aliena da influenze estranee ad un ideale nobilissimo, converge sia pure attraverso alle inevitabili incertezze, alla esplicazione di una schietta e robusta tempra di pittore”. Il critico qui, a proposito dell’arte di Merello, introduce un concetto che approfondirà meglio in seguito. Egli parla infatti di “arte classica” che risponde “a quelli ideali di classica serenità”.
Il 27 gennaio del 1909 De Gaufridy informa i lettori che l’esposizione di quadri del pittore Merello, che avrebbe dovuto aver luogo l’anno precedente al Circolo Tunnel, e che era stata rimandata poiché erano mancate le opere detenute dal Grubicy, sarebbe stata allestita nel febbraio di quell’anno. Il vuoto sarebbe stato colmato con nuovi lavori portati a termine nel frattempo.
Il 18 ed il 19 giugno del 1911 in un articolo suddiviso in due parti e intitolato Della moderna arte italiana e di un artista ligure, De Gaufridy riconferma la sua ammirazione per il pittore.
Per spiegare le ragioni del mancato riconoscimento di questo artista, affronta l’analisi dell’arte contemporanea in Italia “paese che in cinquant’anni ha dato di sé doloroso spettacolo per un dispregio continuo di tutte le sue più potenti energie intellettuali”.
I quadri dei maggiori pittori italiani del momento Segantini e Previati sarebbero all’estero e la loro produzione non è rappresentata in nessuna delle nostre gallerie d’arte moderna. “In Italia il giusto apprezzamento intorno all’arte contemporanea ci è velato dall’inutile ingombro di una produzione cui è il principio e fine il solo mediocre vantaggio della piccola vendita quotidiana”.
Il critico non nasconde che anche in altri paesi le novità fanno fatica ad emergere. Infatti in Francia, ad esempio, il cammino degli impressionisti e dei pointillistes nonché dei loro predecessori, i paesisti della scuola del 1830 e Millet, è stato alquanto arduo e difficoltoso.
Ma De Gaufridy si rende conto di un elemento molto importante che è venuto a mancare alla pittura italiana contemporanea.
Infatti, in Francia, le arti figurative sono state sostenute dall’opera di filosofi, storici e letterati; determinante anche la presenza di mecenati aristocratici e mercanti intelligenti che favorirono l’evoluzione del gusto.
Tutte cose di cui l’Italia era carente.
La riprova è, a suo parere, il fallimento dell’Esposizione Romana “campo di piccole competizioni di artisti” nonché “pomposissima fiera delle vanità” che ha visto trionfare l’opera di due scadenti pittori spagnoli quali Ignazio Zuloaga e Anglada Camarasa. In questa già desolante situazione nazionale, la Liguria “sembra addirittura non essere… Italia” in quanto tagliata fuori dagli ingranaggi della “macchina che macina e stritola gli interessi artistici della nazione”.
Purtroppo tale situazione non va certo a giovamento della regione, poiché gli artisti liguri sono ignorati dal resto d’Italia, neanche uno fra loro fu infatti invitato alla suddetta esposizione romana.
De Gaufridy ritorna inevitabilmente sul tema a lui caro, cioè quello della “classicità” dell’arte di Merello: “L’opera d’arte infatti non nasce come un fungo di generazione spontanea, ma è la conseguenza logica e necessaria di tutte le altre che l’hanno preceduta: questo lento, graduale, ininterrotto succedersi di opere costituisce ciò che si chiama la tradizione artistica”.
Il critico si domanda poi quali opere resisteranno al tempo e saranno un giorno definite “classiche”, ma rimanda la trattazione dell’argomento ad una successiva e più esauriente trattazione.
Il 24 maggio 1913 viene recensita la Mostra della Promotrice allestita nel ridotto del teatro Carlo Felice.
Merello è presente con un unico quadro, un paesaggio “un semplice quadretto, alto non più di tre palmi”; qui viene colta l’occasione per affrontare un tema più generale: ossia che cosa sia un’opera d’arte e chi possa essere considerato un vero pittore. A tale fine cita Leonardo: “non è buon pittore quegli che non supera il suo maestro”, parole che possono essere rovesciate in “non è buon maestro quegli che non sarà superato”.
Il valore che la critica può dare ad ogni artista, assegnandogli un posto nella storia dell’arte è racchiuso nei limiti di queste due sentenze. Il pittore, alla stessa stregua del musicista, pone i termini della sua genialità nella novità delle melodie che egli saprà creare, pur poggiandosi sui grandi esempi dei maestri del passato.
A questo punto il critico afferma che la sua epoca è contraddistinta dalle scoperte scientifiche e che l’arte non può non tenerne conto: “la durevole impronta di stile della pittura del nostro tempo è determinata dal carattere scientifico degli studi che la informano; alla scienza nuova l’arte chiese gli elementi del suo rinnovamento: e precisamente a quel ramo della scienza, che inesplorato dagli antichi, offriva i mezzi per la nuova conquista: l’unica conquista che la pittura moderna accampi su tutta quella antica e che in una sola parola può riassumere il suo scopo: la luminosità”.
Vengono qui citati gli esperimenti di ottica di Mile, Chevreul, Helmboltz, Bruke e Rood, nonché l’opera recente di Previati I principi scientifici del Divisionismo, ma si riconosce che non sono comunque questi gli elementi per comprendere se un quadro moderno è un’opera d’arte.
“L’opera del grande artista è quella che non muore”, opera d’arte è quindi quella che si eleva dalle modalità espressive del momento per assurgere all’eternità.
A questo punto il critico introduce alcune importanti considerazioni.
Caduta nell’oblio la pittura raffaellita, bisogna guardare in chiave storicistica a Constable e a Turner, perché da questi artisti derivano Millet, Corot, Daubigny, Rousseau e Fontanesi per arrivare all’ultima tappa di questo cammino ossia ai neoimpressionisti francesi e ai divisionisti italiani.
Con grande acume poi, nega la possibilità della ricostituzione dei fasti passati delle scuole artistiche regionali: “illusione vana e illogica come di chi volesse credere oggi ad una scienza bolognese, milanese o scandinava” e ancora “poco importa all’artista come all’uomo di scienza, che l’impeto propulsore gli giunga dalla Francia o dall’Inghilterra, viva pure egli in un piccolo paese come San Fruttuoso di Portofino o tra le nevi del Maloja o in Piazza del Duomo”.
Un artista come Rubaldo Merello, infatti si inserisce pienamente nel solco della tradizione artistica italiana e da lui procederanno nuove possibilità per la pittura del futuro. Egli dice un “qualche cosa” che nessuno prima di lui ha detto, che è indice della sua personalità e del suo valore.
Il 10 luglio del 1914 De Gaufridy scrive un articolo a commento dell’esposizione delle opere di Merello nel ridotto del teatro Carlo Felice.
Si trattava in pratica della prima “personale” dell’artista, evento che forse avrebbe meritato un’attenzione diversa da parte del critico e sostenitore. Invece egli si limita a spendere poche parole in cui presenta l’inserimento di dieci nuove opere in aggiunta alle precedenti già esposte nella sala dedicata all’artista. Viene lamentato il fatto che questa sala non è sufficientemente illuminata e che è troppo angusta per il numero e le dimensioni dei quadri.
Seguendo una prassi ormai consueta, il critico rimanda a successive trattazioni l’approfondimento delle opere esposte, anticipando soltanto che nei suoi giudizi si asterrà da ogni dissertazione di natura tecnica poiché su questi particolari possono indulgere solo “quei professori che in garbate e paradossali conferenze si dilettano di dimostrare luminosamente l’inutilità delle cattedre”.
Al critico preme invece richiamare l’attenzione del pubblico su un artista che persegue esclusivamente la verità, che in ogni tempo fu l’unico fine dell’arte, e che si presenta con caratteristiche tali da poter “scrivere una pagina gloriosa nella storia dell’arte contemporanea”.
Il 31 gennaio del 1922 Rubaldo Merello muore e De Gaufridy scrive nei giorni successivi un addolorato quanto amaro resoconto.
In vita l’artista non ha conosciuto la fama e gli onori che gli sarebbero spettati di diritto.
Ora non rimane che attendere il riconoscimento postumo.
A quando? Si chiede il critico pur non aspettandosi alcuna risposta soprattutto da parte delle autorità ufficiali, o da parte di quelle stesse commissioni che avevano puntualmente rifiutato le opere di Merello in varie rinomate esposizioni, facendo emergere altresì artisti mediocri, autori di opere scadenti come gli orribili monumenti che il pubblico può vedere in ogni piazza d’Italia.
Ecco il pubblico: ad esso si rivolge De Gaufridy “alla dignità ed all’orgoglio dei genovesi”.
Ciononostante proprio dalle Autorità arriverà una prima risposta.
Infatti, il 26 marzo il critico deve dar atto della proposta fatta dal consigliere Lantini e prontamente recepita dall’assessore Mario Labò di acquistare alcuni quadri del pittore per la locale Civica Galleria d’Arte Moderna.
Cosa questa che avrebbe certamente lenito le difficoltà della famiglia a causa del fatto “che delle opere del Merello s’è venuta impadronendo la speculazione e non certo a beneficio della famiglia povera”.
In realtà, almeno nell’immediato, tale proposta non sortì alcuna conseguenza, poiché per l’acquisto di opere di Merello da parte del Comune di Genova occorrerà aspettare il 1926.
In un articolo del 18 giugno dell’anno della morte del pittore, De Gaufridy ritorna sulla questione, ricordando che già un’opera di Merello (tra le migliori a suo giudizio) era stata assicurata nel 1914 alla Galleria di Palazzo Rosso grazie all’interessamento e alla perspicacia del direttore delle Belle Arti prof. Orlando Grosso.
Nello stesso testo si dà notizia del fatto che Alberto Grubicy De Dragon aveva donato alla Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma un’importante collezione di venticinque opere dei maestri divisionisti, fra cui anche alcuni semplici studi di minore importanza di Rubaldo Merello.
Tale notizia per il critico è molto significativa, poiché “classifica ufficialmente artisti dei quali l’arte fino a tempo recentissimo fu osteggiata e misconosciuta”
Altre voci critiche coeve
Angelo Balbi fu una singolare figura di “artista dilettante” che ebbe anche una notevole capacità di scrittore d’arte.
Fu inoltre un fine collezionista che rivolgeva il proprio interesse all’ottocento ed ai contemporanei.
In poche parole egli fu un “autentico uomo di cultura”.
Per quanto riguarda la critica d’arte sulla figura e l’opera di Rubaldo Merello, possiamo rilevare tre articoli usciti sul quotidiano genovese “Il Lavoro”.
Il 30 maggio 1907 recensisce l’esposizione della Promotrice che a giudizio del critico avrebbe bisogno di una nuova vitalità, attraendo nuovi elementi atti a richiamare l’attenzione di tutta la Genova intellettuale.
Per quanto riguarda il nostro artista così si esprime: “ Le piccole impressioni del divisionista R.M., uno scultore che ha lasciato in disparte creta e scalpelli per dedicarsi alla pittura, sono più che altro esercizi di tecnica di cui una, quella intitolata Marina, rende con assai evidenza un breve tratto del Monte di Portofino. Ma sappiamo il Merello intento a ben più importanti cose, e ci riserviamo soffermarci a lungo su l’opera sua prossimamente”.
Il 18 marzo 1909 recensisce la mostra di Merello che definisce “intima” per quel senso di raccoglimento modesto degno di un pittore che “certo non troverà facile coorte di ammiratori”.
Ciononostante dalle sue pitture sembra emanare un intenso odore di pini ed alghe che pervade le stanze del circolo artistico.
L’opera pittorica di Merello non si manifesta subito al primo sguardo, deve essere invece lentamente compresa.
Il procedimento tecnico tende alla più intensa ricerca di luminosità sulla scia di altri artisti che conseguirono risultati e fama. “Non sempre l’effetto può dirsi completamente raggiunto, che talvolta la tecnica quasi faticosa ed un po’ monotona fa pensare se veramente sia necessario al pittore questo, diciamo così, artificio formale”.
A tale proposito il critico ricorda che in alcuni studi che non figuravano in mostra, il pittore aveva raggiunto altrettanto validi risultati senza ricorrere a questa tecnica.
Comunque “dinanzi alla piccola raccolta, emerge indubbiamente che il pittore ideatore di essa può spingersi assai lungi nel cammino dell’arte.
Il Divisionismo per sé stesso non è certo pittura oramai originale; troppi artisti ne usarono, e forse ne abusarono, ma nel Merello, riteniamo sia per sé stesso, un procedimento formale per raggiungere altra meta, meta che senza dubbio egli conseguirà, perché dotato d’ingegno e di vigore, perché non ottenebrata da false visioni”.
Il 14 maggio del 1910, in occasione dell’esposizione di Belle Arti, Balbi ritorna a parlare di Merello, il solitario pittore confinatosi volontariamente nel più sperduto angolo della Riviera a San Fruttuoso.
E da là l’artista trae le proprie sensazioni che traspone sulla tela: “piccole visioni di una tecnica personale, originale, dove sono raggiunte espressioni intense e delicatissime”.
Orlando Grosso, nato a Genova nel 1882 e morto a Bonassola nel 1968, fu anch’egli una figura originale e poliedrica. Laureato in giurisprudenza, frequentò l’Accademia Ligustica e gli studi dei pittori Viazzi e Pennasilico.
Fece parte del gruppo di Albaro e tra il 1909 ed il 1925 soggiornò lungamente a Parigi dove espose al Salon d’Automne. Accademico di merito per le classi di storia dell’arte e di pittura a partire dal 1928 conseguì la doppia carica di direttore dell’Ufficio di belle Arti e di direttore delle Gallerie di Palazzo Rosso e Palazzo Bianco, grazie alla sua duplice formazione artistica e giuridica.
Fu per merito di Grosso che il Comune di Genova poté acquisire, con la mediazione del De Gaufridy, le opere di Merello esposte nel 1926 alla Galleria Pesaro di Milano.
Sul numero 14 della rivista “Pagine d’arte” del 30 agosto 1914 Orlando Grosso firma una recensione sull’esposizione di Belle Arti a Genova.
Qui l’autore lamenta il fatto che gli artisti si ostinano a ripetere le manifestazioni delle generazioni passate, o quelle derivanti da altri paesi, senza alcun legame con l’attualità, con la vita moderna.
Solo la caricatura e l’umorismo hanno una valenza sociale.
Tutto ciò, anche se non espressamente citato, rimanda a Baudelaire che già aveva affrontato ampiamente queste tematiche nel 1856 con Dell’essenza del riso e nel 1859 con Il pittore della vita moderna.
Secondo Grosso solamente la portata rivoluzionaria dei futuristi riuscirà a colmare la grande voragine aperta tra il cuore ed il cervello della società. Infatti, il pubblico abituato alle forti emozioni della vita moderna è desideroso di vivere con intensità anziché languire nelle piacevolezze scolastiche e formali dei tenui accordi coloristici, o di smarrirsi nei labirinti di un simbolo vuoto.
Purtroppo, secondo il critico, nella sua epoca tutte le esposizioni dalle più grandi alle più piccole si assomigliano: le stesse vedute, gli stessi paesaggi, lo stesso sole che tanto annoia i futuristi. “Si può quindi essere ben felici quando, finalmente si trova un pittore che, elevandosi dalla facile abilità tecnica, fa vibrare di commozione il nostro animo, poiché egli dice una parola nuova, poiché egli è un artista nel significato più puro. Rubaldo Merello è oggi il pittore che Genova onora, poiché la sua opera non ha altre origini se non dall’intima comunione colla Natura, da lui profondamente intesa ed amata”.
Dai quadri di questo artista emana una Liguria come mai nessun altro l’ha intesa.
In un articolo comparso su “Il Lavoro” del 15 maggio 1915 Arrigo Angiolini recensisce la mostra della Promotrice analizzando le opere esposte da Nomellini, Olivari, Sacheri, Baghino, Figari, Maragliano, Gaudenzi e Merello.
Il “Paesaggio marino” di Rubaldo Merello, esposto in una sala insieme a tre quadri di Plinio Nomellini, è un bozzetto racchiuso da una modesta cornice, ma dal quale emana tanta luce e tanta vita da richiamare lo sguardo non appena entrati nella sala. E’ veramente un quadro di rilievo tra tante opere convenzionali, perché “rappresenta veramente qualcosa di vivente: quel mare cupo lucente, le chiome dei pini di variegature e di iridescenza, formano un ambiente caldissimo che è una rivelazione profonda della natura, che oltre ad avere un’anima, sa anche dare un grande godimento all’occhio”.
Il critico passa poi ad analizzare acutamente la questione tecnica.
Egli premette che muovendo gli elogi al pittore non parte da presupposti tecnici poiché “davanti ad un’opera d’arte si guarda il risultato solamente”. In un secondo tempo c’è l’analisi dei mezzi adoperati e “se la tecnica usata dall’artista ha contribuito, sia pure singolarmente in quel pittore ad ottenere tanta vita, tanto splendore di colore, sia benedetta questa tecnica!”. Né tuttavia bisogna esagerare – avverte Angiolini – con la noncuranza verso la tecnica, perché ad ogni cambiamento “tecnico” nel corso della storia dell’arte corrisponde un rinnovamento, spesso combattuto ed osteggiato dalla maggioranza dei contemporanei.
Su la “Gazzetta di Genova” il 31 gennaio del 1916 Merello viene citato da Ettore Cozzani fra i più noti artisti genovesi.
Nel 1922 la morte del pittore induce pochi a scrivere su di lui. Oltre al solito De Gaufridy, il 4 febbraio Pietro Perelli scrive per “Il Secolo XIX” un articolo In morte di R.M..
Qui l’autore rievoca con commozione la triste storia del pittore insistendo sul cliché della vita solitaria nell’eremo di San Fruttuoso. Tuttavia ne esce fuori un ritratto inedito di un uomo comunque sereno e vivace pur nelle difficoltà: “era felice e contento non per gli agi e la fama di cui sapeva valutare il giusto prezzo, ma per l’intimo senso dell’ingegno possente, pel sentimento della forza artistica che ben sapeva di possedere”. Secondo Perelli, l’artista traeva la sua felicità dalla fantasia e creatività con cui si era costruito un “minuscolo mondo ideale” punto di partenza per sollevarsi alle più alte vette di “luce eterea, immortale ed immacolata”.
Nel panorama critico di quest’epoca i contributi maggiormente degni di rilievo sono, indubbiamente, quelli di Sacchetti e di Calzini, per l’approccio ed il taglio “moderno” all’analisi della personalità e dell’opera di Merello.
Su “Dedalo” vol. II del 1922 appare un lungo articolo di Enrico Sacchetti intitolato Il pittore Rubaldo Merello. Questo articolo esce subito dopo la morte del pittore e contiene un resoconto asciutto e privo di retorica degli elementi biografici.
Innanzitutto si parla della povertà: questo artista per poter avere la libertà di sviluppo artistico, si era imposto una regola di vita frugalissima, tanto che la sua famiglia spendeva per vivere ciò che altri spendono per il fumare. Egli era un uomo piccolo e grasso che alla gente poteva sembrare perfino buffo. Si diceva di lui che fosse afflitto dalla mania di persecuzione e che fosse ossessionato dal timore che altri artisti potessero carpire la sua tecnica.
Dopo averlo conosciuto personalmente nel castello di Sem Benelli a Zoagli, Sacchetti s’era reso conto che questi timori erano più che legittimi: “E un uomo intelligente e buono che s’è fatto della vita un concetto molto elevato, che è sensibile da rabbrividire ad ogni mistero, che è povero e non può vivacchiare d’accordo con tutti, per forza ha da sentirsi perseguitato”.
Sacchetti passa poi all’analisi dei contenuti dell’opera di Merello, focalizzandone la centralità dell’aspirazione verso l’assoluto.
Il critico si muove con chiarezza e sicurezza, riuscendo a capire le differenze fra le varie espressioni artistiche di Merello.
Riesce infatti, per primo, a distinguere i motivi etici e morali ispiratori della produzione grafica e plastica, mentre realizza che l’espressione pittorica è una cosa diversa.
L’idea centrale era la tragica necessità della lotta contro il male, e su questa base morale era incentrata la sua attività scultorea ed i disegni.
Partendo dall’odio verso il male, l’artista arrivava però all’amore verso tutte le creature che posseggono sia il male che il bene contemporaneamente.
Qui il critico afferma che Merello si mise a far della scultura poco prima di morire. Cosa che non è veritiera, in quanto è stato ormai appurato che l’artista pur avendo avuto un esordio come scultore, si era avvicinato ben presto alla pittura, pur senza mai abbandonare le attività plastiche cui forse era ritornato con maggiore impegno nell’ultimo periodo della sua vita.
A commento della statua del Dolore commissionatagli per una lapide del cimitero di Camogli, afferma: “soltanto un uomo che lealmente ha accettate tutte le responsabilità della vita e s’è posto solo di fronte al mondo, solo e sempre vigile e sempre attento a serrare il suo nodo, poteva modellare quella figura. Egli sapeva che cosa sarebbe stata la sua morte: una vittoria della vita sull’individuo il quale per tutto il corso della sua esistenza ha lottato per non essere confuso con la massa cosmica, e ora per ora, minuto per minuto ha misurato il nemico”.
Per la pittura il discorso è diverso, qui l’artista non ha bisogno di contenuti morali, qui può davvero liberare la propria arte per il solo piacere di farlo, perché vuole bene all’aria, al mare, agli alberi, a tutto ciò che diventa motivo della propria pittura, perché i colori sono “belli” e lui ama rappresentarli.
Quando dipingeva era un “pittore” nel vero senso della parola, nessuno prima di lui ha saputo rappresentare la Liguria, fissandone i caratteri assolutamente unici della terra e del mare. La sua ricerca è stata così intensa tanto che “il volto della sua piccola patria lo conobbe come si conosce il volto di nostra madre”. Ciononostante egli ha saputo evitare il rischio di produrre una pittura vedutistica e aneddotica.
Né sentimentalismi, né mollezze elegiache crepuscolari, popolano le sue tele, “perché Merello ha scoperto che tutte le forme organiche vivono sommerse in un bagno di turchino che è il colore dell’infinito e per lui l’ombra e la luce non sono più i termini di un vecchio rapporto scolastico: le luci hanno una cupa intensità siderale e le ombre sono come intrise dalla serenità dei grandi spazi dove la luce passa senza fermarsi”.
Un contributo critico molto importante, per la serietà ed il metodo con cui è impostato, è rappresentato dallo scritto di Raffaele Calzini pubblicato su “Il Secolo” del 4 settembre 1923. Rubaldo Merello è visto come un “operaio della pittura”, la cui dedizione solitaria non è legata ad un ideale assoluto e mistico di arte che ripaga di ogni sacrificio, ma è vista come un lento ripiegamento introspettivo, attraverso un continuo ed appartato lavoro interiore che lo conduce a precisi e validi risultati artistici, e dove la sofferenza quotidiana appare come inevitabile e quindi accettata con muta rassegnazione. L’artista appare, quindi, come un uomo dalla personalità inquieta e tormentata, in bilico fra la consapevolezza del proprio valore e l’amarezza per le difficoltà causate dal mancato successo.
Il Calzini individua i temi fondamentali della sua arte: natura e mito. L’artista è perennemente insoddisfatto, l’abbandono nella natura non lo appaga completamente, quindi si volge verso temi simbolici e mitologici alimentati dalla cultura classica della sua formazione e dalle letture di argomento religioso ed esoterico, quali ad esempio i temi della metempsicosi mutuati dalla religione buddista, molto in voga in quegli anni.
La luce è il problema fondamentale della sua pittura, ma la sua preoccupazione principale non è la pura resa ottica, egli invece tenta un’interpretazione spirituale, “lirica” del paesaggio.
Con grande acume Calzini allarga il discorso, allontanandosi dai confini regionalistici, per scoprire affinità con esperienze coeve fuori addirittura fuori d’Italia. Merello è interessato da un vivo senso della decorazione, “l’insieme lo attrae più del particolare”, nel senso architettonico delle masse e dei piani della composizione del quadro vi si può ravvisare una certa parentela con Maurice Denis: “un Denis più scintillante, più luminoso, più fermo”.
Per quanto riguarda le tematiche mitologiche, esse sono inquadrate nell’ambito della tormentata personalità dell’artista, nella sua capacità visionaria che gli faceva scoprire dietro ogni fenomeno naturale le fantastiche parvenze del mito “il tempio di una popolazione di Iddii”.
Non si trattava, pertanto, di semplici escamotages letterari, ma di momenti fondamentali dell’esperienza dell’artista, laddove nel mito umanità e natura si compenetravano completamente.
L’articolo di Calzini è importante anche perché lo scrittore è l’unico ad evitare accuratamente di alimentare la “leggenda” di Merello, la cui infelice vicenda umana è invece scandagliata senza cedimenti alla retorica, anzi ne emerge una precisa accusa nei confronti della grettezza dell’ambiente artistico ufficiale contemporaneo, nei confronti di quanti sfruttarono abilmente la sua solitudine, nell’interesse a “non vederlo salire”.
Iole Murruni, Storica dell’arte
Franco Dioli, Storico dell’arte e direttore IDAL800900
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