Napoli 1919 – Godiasco (PV) 1997

Giovanni Novaresio pittore ligure

Giovanni Novaresio si trasferisce nel 1934 a Genova, dove frequenta l’Accademia Ligustica di Belle Arti.
Partecipa attivamente alla Resistenza e nel 1945 fonda, insieme allo scultore Sandro Cherchi, la galleria Genova e L’Isola, punto di riferimento, nel dopoguerra, per gli artisti di avanguardia del capoluogo ligure.
Dal 1954 soggiorna ripetutamente in Somalia, che diviene la sua seconda patria (tanto da essere soprannominato “Giovanni l’Africano”) e gli ispira le opere che più contraddistinguono la sua produzione.
Nel 1961 rientra stabilmente in Italia e la sua pittura si indirizza verso l’astrattismo.
Dal 1939 al 1997, anno della sua scomparsa, espone in numerose mostre personali e collettive in Italia e all’estero.
Giovanni Novaresio nel 2013 ordina la mostra “Old & New A  Zimbabwean Italian Tale” presso il Museo Nazionale Preistorico ed Etnografico “Luigi Pigorini” di Roma ha portato per la prima volta in Italia i disegni con i quali Novaresio ha documentato la costruzione della diga di Kariba, esposti nel 1960 a Salisbury (Rhodesia del Sud).

Novaresio testimonia già dalle prime opere una  decisa presa di coscienza ideologica contro l’arte di regime: come scriverà Germano Beringheli nel 1974 l’artista si esprime attraverso “una proiezione espressionista interpolata sui volumi, sui disegni e persino sul colore di uno Scipione e di un Mafai filtrati tuttavia per alcune profilature di “Corrente”.
Negli anni Cinquanta si confronta con la cultura neocubista “Coinvolto nella querelle ideologica postbellica tra realismo e astrattismo, Novaresio in realtà aveva deciso di sottrarvisi guardando a un’arte delle forme che aveva in Picasso un riferimento estetico e non politico, affrontando soggetti figurativi molto semplificati e lontani dalla retorica realista, al tempo stesso coltivando un interesse sperimentale per l’astrazione geometrica.”  (Leo Lecci, 1992). Le sue opere più caratteristiche gli sono tuttavia ispirate dal lungo soggiorno in Somalia: le raffigurazioni di “giovani somale solide e vaghe, di pastori nobili nelle ruvide vesti e le maternità eleganti e primitive” (Claudia Andreotta, 2017) uniscono in maniera unica emotività e sintesi formale.

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