Quargneto (AL) 1881 – Milano 1966
Carlo Carrà pittore che ha operato in Liguria
Carlo Carrà nel 1899-1900 fu per la prima volta a Parigi, poi a Londra; ma i corsi regolari li seguì all‘Accademia di Brera, alla scuola di Tallone.
Vide molta pittura antica e moderna a Londra e a Parigi; a Milano guardava soltanto a Segantini, Previati, Mosè Bianchi.
La presenza eversiva di Marinetti, cosmopolita, soggiogò immediatamente lo spirito anarchico del ribelle Carrà.
La sua partecipazione al futurismo (fu uno dei redattori del Manifesto) ben si spiega tenendo conto, di una prima confusa esperienza di letture anarcoidi e libertarie, che aveva preparato il terreno alla ribellione contro la borghesia e contro la filosofia crociana.
Il suo temperamento rude che non si temperò nemmeno con l’incontro con Boccioni, agile dialettico e vivacissima intelligenza del composito gruppo futurista. Accanto a Marinetti, incominciò una intensa stagione creatrice, cui aveva dato qualche spunto attivo l’esperienza divisionista.
Dal 1909 al 1915, l’attività futurista fu intensa sia in Italia che all’estero.
La conoscenza di Braque e di Picasso servì a trasformare il linguaggio futurista, ancora grezzo e incerto, in un sistema pittorico coerente con la scomposizione dei piani e non con le linee di forza.
Carlo Carrà sotto gli auspici lombardi di Cesare Tallone, continuata all’insegna del divisionismo di Segantini e di Previati, e risolta con quel punto d’arrivo, nel 1912, che veniva a negar tutto, nel nome di Cézanne e del cubismo, questa volontà costruttiva era la componente fondamentale dell’arte, era la base sulla quale, consumata l’esperienza dell’attivismo futurista, e avrebbe creato gli spazi poetici della nuova avventura “metafisica“.
Il 1916 e il 1917 furono gli anni della “seconda rivelazione” quella appunto dell’arte metafisica, durante il soggiorno a Ferrara accanto a G. De Chirico.
Egli riallacciandosi a Ferrara all’arte italiana del Quattrocento, scopriva un rapporto certamente più persuasivo in un ritorno all’arte dei primitivi, sia pure partendo da Giotto.
Nel 1919, tornato a Milano, l’anno prima aveva iniziato la collaborazione alla rivista “Valori plastici” e dal 1922, fino al 1938, fu critico d’arte del quotidiano L’Ambrosiano.
Dal 1939 al 1952 fu professore all’Accademia di Brera.
Soggiornò nell’estate del 1921 a Moneglia, e nel 1923 a Camogli: si avviava così alla riscoperta della natura, “a contatto col mare, con le rupi solitarie e i vasti cieli della Liguria” (Longhi).
E tale “riscoperta” assume l’aspetto, nel 1923, delle Vele nel porto, una delle opere più concluse, nella semplicità costruttiva di uno schema giottesco elementare; in netta antitesi con l’impressione, con la rapida nota dal vero.
Sulla via iniziata con la Natura morta con la squadra attraverso un processo di eliminazione del particolare descrittivo, riusciva ad esprimere il senso del mistero, che investe ogni aspetto e ogni gesto del vivere quotidiano, nella messa in scena trecentesca che ha la sospensione attonita e l’incanto dell’attimo, in cui qualcosa “deve accadere”.
Ma il cezannismo riguarda, ancora una volta, le strutture formali, mentre si fa luce, nelle composizioni ispirate dalle marine della Versilia (dal 1926, per diversi anni, l’artista passò l’estate a Forte dei Marmi), il ricordo delle pittura di Seurat, il quale interpreta modernamente le architetture quattrocentesche di Piero, velandole appena sotto lo sfarfallio luminoso del puntinismo scientifico.
La Versilia diventa il luogo poetico in cui inquadra le spiagge deserte coi capanni allineati, le marine agitate al soffio del libeccio, i moli con le barche e i velieri sotto un cielo minaccioso, i bagnanti come statue.
L’opera “Marina a Camogli” ( 1957) rappresenta la riprese di vecchi motivi, negli ultimi anni egli conosceva le leggi che regolano la divisione armonica dei piani e degli spazi, e a quelle si affidava nella costruzione di un ordinato mondo fantastico. In ogni opera si sforzava di raggiungere la dimensione umana e morale degli antichi, che gli somigliavano: i creatori di santi, di angeli e di mostri delle cattedrali romaniche.
Perché Carlo Carrà era davvero il più antico e il più italiano dei pittori del Novecento.
L’archivio dell’artista è conservato all’Archivio del Novecento del Mart di Rovereto.
È con “La mia scoperta del mare” del 1940 che Carlo Carrà spiega il ruolo essenziale delle Marine nel proprio percorso artistico, sottolineando” … che mutare una direzione in arte non significa rinnegare il passato, bensì allargarlo e compenetrarlo con un altro concetto estetico, scoprire nuovi rapporti ignoti, scoprire nuove verità”.
Le Marine e il paesaggio in genere, costituiscono infatti uno snodo ulteriore quanto risolutivo nell’ ambito della ricerca artistica di Carrà.
Passato da protagonista attraverso il modernismo turbolento dei futuristi, nella cerchia militante attorno alle riviste la “Voce” e “Valori Plastici”, Carrà apprende dalle novità francesi e inizia in questo momento quel processo di “solidificazione” delle forme seguito all’impressionismo, attraverso Cézanne. Ma poi è la calibratura e la geometrica codifica dei volumi in superficie di Seurat a determinare la sua disponibilità verso la successiva ‘pittura metafisica’, in cui traspone “su un piano di concretezza pittorica le semplici evocazioni sceniche” di Giorgio De Chirico.
La ‘stagione metafisica’ di Carrà corrisponde al formarsi del suo” convincimento che il naturalismo aveva cancellato dalla pittura quell’ atmosfera spirituale che si trova gagliardamente espressa in Giotto, Paolo Uccello, Piero, Masaccio” (C. Carrà) e che, attraverso quest’ultimi, andava ricreata. L’astrazione formale come distillato spirituale di questi artisti è interpretata da Carrà al fine di raggiungere l’obbiettivo primario della sua pittura quello di “cogliere quel rapporto che comprende il bisogno di immedesimazione con le cose e il bisogno astrazione”, il cui duplice stimolo induce il pittore a potenziare la sua capacità di sottrarre le cose alle contingenze purificandole e conferendo loro valore assoluto”, come scrive tra il 1923 e il 1925.
Ha già concluso il Pino (1921), l’opera considerata dall’ artista stesso esser il nuovo indirizzo che andava maturando, l’opera dalla quale discendono tutte le Marine successive.
“Con questo dipinto io cercavo di ricreare una rappresentazione mitica della natura” che “significava l’albeggiare di un verità inedita nelle mie precedenti tappe” (1940).
Una verità sostanziata dall’intimo sentimento dell’ artista con le Marine prodotte nel corso di tutta la sua attività a partire dagli anni Venti, quando “principio fondamentale delle mie ricerche”, spiega ancora Carrà, “era di fermare la commozione suscitata nel mio animo a contatto del mare” al fine di giungere “ad un ordine plastico ai torbidi umori di qualsiasi formalismo preconcetto, per prendere sempre più coscienza di una pittura viva e palpitante di poesia” (1940).
(Francesca Marini)